sopra a Sedona ora era andata via.
Cercò di contare i minuti che passavano, cercò di tenere traccia del tempo che stava scorrendo, ma non era semplice farlo. Il suo corpo manteneva i suoi occhi fissi sul lavoro che stava facendo, non sulla posizione del sole, e se era stanca o aveva fame, non lo sentiva. Nei più profondi recessi della sua mente, Luna ora capiva come facessero i controllati a essere tanto veloci e forti: non si curavano del dolore o della stanchezza che avrebbe fermato la maggior parte della gente comune. Laddove la maggior parte delle persone si fermavano per aver raggiunto i propri limiti, i controllati erano spinti per tutto il tempo oltre quegli stessi limiti dagli alieni che li comandavano.
Che ci comandano, si corresse Luna.
Non voleva pensare a se stessa come a una di loro, ma non era sicura di come distrarsi da tutto ciò. Non poteva chiudere gli occhi per isolare tutto fuori. Il più che poteva fare era tentare di restare aggrappata ai ricordi della sua vita prima di questo: stare seduta sulla riva del lago con Kevin quando le aveva detto della sua malattia, andare a scuola e… e…
Si aggrappò a un ricordo, pensando a un giorno in cui avrebbe dovuto incontrare Kevin dopo scuola. Avevano programmato di andare in una pizzeria all’angolo, poco distante da casa loro. Poteva ricordare la sensazione, come era stato camminare per la loro città, passando per un posto che era loro e basta, un luogo di cui nessuno sapeva, dietro a una delle recinzioni di legno che circondavano una vecchia casa dove nessuno viveva da anni.
Andare lì significava arrampicarsi su un vecchio albero che teneva libero un passaggio in mezzo a una catasta di vecchie cianfrusaglie, poi correre sulle tavole di un basso tetto, mettendo i piedi nei punti giusti per evitare di caderci attraverso, e nel frattempo controllando per tutto il tempo di non farsi vedere da nessuno che potesse gridare loro dietro per essere in un posto dove non avrebbero dovuto stare.
In altre parole, era esattamente il genere di cose che Luna adorava fare. Aveva percorso le tavole con il genere di velocità e determinazione che probabilmente avrebbero fatto sospirare i suoi genitori se l’avessero vista. Mentre correva si era trovata a pensare a Kevin, chiedendosi se oggi sarebbe stato il giorno in cui si sarebbe presentato chiedendole se poteva baciarla.
Forse no: era capace di dimostrarsi piuttosto ignaro delle cose a volte.
Aveva attraversato i giardini, arrivando al punto in cui lei e Kevin dovevano incontrarsi. Aveva sentito un rumore venire da dietro la recinzione, e aveva visto Kevin con un paio di altri ragazzi mai visti prima.
“Cosa ci fai qua dietro?” chiese uno dei due. “Nascosto in modo che nessuno possa trovarti?”
“Non mi sto nascondendo,” insistette Kevin, e Luna immaginò che fosse la cosa peggiore che avesse potuto fare.
“Stai dicendo che sono un bugiardo?” gli chiese il ragazzo. Diede una spinta a Kevin, mandandolo addosso a un muro. “Mi stai dando del bugiardo?”
Luna era scivolata nel passaggio in mezzo alla recinzione. “Sì,” aveva risposto. “Sto dicendo che sei un bugiardo, e un bullo, e se mi dai un paio di secondi, probabilmente mi verranno in mente un sacco di altre cose antipatiche con cui chiamarti.”
Il ragazzo si era girato verso di lei. “Farai meglio ad andartene di corsa. Questa è una faccenda tra me e lui.”
“E il tuo amichetto, non dimenticartelo,” aveva risposto Luna.
“Fai la furba solo perché pensi che non le darei a una ragazza! Beh…”
Luna gli aveva dato un pugno sul naso, soprattutto perché si stava stancando ad aspettare che quello sbruffone facesse qualcosa. Il ragazzo aveva ringhiato e si era messo a rincorrerla. Ma lei era scattata via velocissima.
Non lo aveva ricondotto verso dove era venuta, perché quella era una sua strada, ma conosceva tanti altri posti. Per puro divertimento era passata in mezzo a un giardino dove c’era sempre la piscina piena, e aveva sentito uno splash alle proprie spalle quando uno dei ragazzi non era riuscito a fermarsi in tempo. Da lì Luna si era arrampicata su uno dei tetti vicini, poi aveva proseguito verso il parco, entrando in un giardino dove viveva un grosso cane rabbioso, attenta a camminare solo negli spazi che erano fuori dal raggio della sua catena. Un ringhio e un grido di paura dietro di lei le avevano fatto capire che anche il secondo ragazzo era finito in trappola.
“Ti prenderò!” le aveva gridato.
Luna si era messa a ridere. “Però dovrai spiegare alla gente come sono riuscita a darti un pugno sul naso e a passarla liscia!”
Era tornata di corsa verso Kevin, che la stava aspettando con la sicurezza di qualcuno che aveva già visto quel giochetto.
“Sai, avresti potuto prenderlo,” gli disse, cercando di apparire duro.
Luna riuscì a non ridere. “Ma è più divertente così. Andiamo, puoi pagarmi la pizza per averti salvato.”
“Ma non mi hai salvato. Avrei potuto prenderlo…”
***
Luna sorrise al ricordo, o lo avrebbe fatto se fosse stata capace di muovere la faccia. Cercò di pensare al nome del bullo, perché era certa di conoscerlo. Ma quale bullo? A cosa stava pensando un secondo fa? Il fatto di non poterlo ricordare la fece fermare inorridita. Ci stava pensando solo un momento fa, e ora era sparito, come… come…
Luna cercò di afferrare i ricordi, ci provò davvero. Sapeva di avere dei ricordi, un’intera vita di memorie. Aveva amici, e una vita, e dei genitori… ovviamente aveva dei genitori, quindi perché non riusciva a ricordare i loro volti? Forse non aveva dei genitori. Forse tutto questo era solo un gioco malato. Forse lei era sempre stata così, ed era solo in qualche modo difettosa, convinta di essere stata diversa come distrazione dal lavoro che gli alieni volevano farle…
No, pensò Luna con forza. Io sono io. Sono Luna. Mi hanno trasformata loro, e ho dei veri ricordi… da qualche parte.
Però non era sicura di dove fossero. Ogni volta che tentava di afferrare quello che sembrava essere l’inizio di un ricordo, quello le scivolava via in una grande nebbia di pensieri che parevano consumare ogni parte di lei. Luna cercò di trascinarsi fuori da quella nebbia, ma quella avanzava sempre più attorno alla propria coscienza, riempiendo ogni cosa, portando via piccoli pezzi di ricordi, di parole, di personalità.
All’improvviso vide qualcosa. Era semplicemente tanto diverso dal resto da risvegliarla, anche se solo per un secondo.
C’era un uomo che si stava avvicinando. Avanzava senza paura. Un uomo vero. Non controllato.
Come poteva essere?
Laddove Luna e gli altri si muovevano con sincronia quasi meccanica, lui avanzava a piccoli scatti furtivi, tenendo in mano quella che sembrava una pistola.
Non sembrava un soldato però. Assomigliava più a un pirata incrociato con un professore. Aveva i capelli spettinati e arruffati, una mezza dozzina di orecchini su un orecchio e gli inizi di una barba. Indossava una giacca in tweed e una camicia con dei jeans e scarponcini da montagna. Non indossava una maschera, e la cosa non aveva per niente senso.
Luna si spostò andandogli incontro, le mani che si allungavano per afferrarlo, tanto veloce che lui non poté neanche saltare indietro. O forse era semplicemente che non voleva neppure provarci. Anche se lui era un adulto e lei solo una ragazzina, Luna aveva sufficiente forza da tenerlo fermo mentre la sua bocca si apriva sempre più e una grande nuvola di vapore le usciva dalla gola. Sentendosi quasi in colpa, Luna soffiò il vapore verso l’uomo, avvolgendolo in una nube tanto densa da farlo tossire.
Luna fece un passo indietro. Era evidente che gli alieni che la controllavano stavano aspettando la trasformazione. L’uomo rimase fermo, sollevando la pistola che teneva in mano, e Luna provò un’ondata di paura. Magari non avrebbe provato dolore, ma era piuttosto sicura che se qualcuno le avesse causato sufficienti danni, sarebbe potuta comunque morire. Per un momento si trovò a pensare che il vapore che aveva esalato si impossessasse di lui prima che potesse sparare. Non voleva morire. Poi si sentì in colpa per averlo anche solo pensato. Non avrebbe dovuto