Sophie Love

Ora e per sempre


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balbettò Emily, sfiorando con lo sguardo la tovaglia, “con il ristorante, e visto che era il nostro anniversario…” Era incapace a tirar fuori le parole.

      “Sì,” disse Ben freddamente. “È il nostro anniversario e io ti ho preso un regalo. Scusami se non è abbastanza bello, ma tu non me l’hai neanche comprato.”

      “Avevo pensato che mi avresti chiesto di sposarti!” urlò alla fine Emily, buttando il tovagliolo sulla tavola.

      Nella sala il mormorio si zittì quando le persone smisero di mangiare per voltarsi a fissarla. A lei non importava più.

      Gli occhi di Ben si spalancarono dalla paura. Sembrava anche più spaventato di quando lei parlava della possibilità di mettere su famiglia.

      “Perché ti vuoi sposare?” chiese.

      Emily venne colta da un momento di chiarezza. Lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. Ben non sarebbe mai cambiato. Non si sarebbe mai impegnato. Sua madre, Amy, avevano avuto entrambe ragione. Aveva sprecato anni in attesa di qualcosa che ovviamente non sarebbe accaduto, e quella minuscola bottiglietta di profumo era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

      “È finita,” disse Emily, senza fiato, gli occhi improvvisamente asciutti. “È davvero finita.”

      “Sei ubriaca?” gridò Ben, incredulo. “Prima vuoi sposarti, e adesso vuoi rompere?”

      “Non sono ubriaca,” disse Emily. “Solo che non sono più cieca. Tutto questo – io e te – non è mai stata una cosa buona.” Si alzò, gettando il tovagliolo sulla sedia. “Me ne vado da casa tua,” disse. “Per stanotte starò da Amy, e domani verrò a prendere la mia roba.”

      “Emily,” disse Ben, cercando di toccarla. “Possiamo parlarne, per favore?”

      “Perché?” replicò. “Così puoi convincermi ad aspettare altri sette anni prima di comprarci una casa nostra? E altri dieci prima di avere un conto in banca in comune? Diciassette anni prima che tu possa anche solo considerare l’idea di prendere un gatto insieme?”

      “Per favore,” diceva Ben sottovoce, guardando il cameriere che si avvicinava col dolce. “Stai facendo una scenata.”

      Emily sapeva di fare una scenata, ma non le importava. Non avrebbe cambiato idea.

      “Non c’è nient’altro di cui parlare,” disse. “È finita. Goditi la tua mousse!”

      E con queste ultime parole, si precipitò fuori dal ristorante.

      CAPITOLO DUE

      Emily fissava la tastiera, desiderando che le dita si muovessero, che facessero qualcosa, qualsiasi cosa. Apparve un’altra email nella sua casella di posta, e la guardò con aria vuota. Le chiacchiere dell’ufficio attorno a lei le entravano da un orecchio e uscivano dall’altro. Non riusciva a concentrarsi. Si sentiva stordita. La nottata completamente in bianco che aveva passato sul bitorzoluto divano di Amy non migliorava di molto la situazione.

      Era al lavoro da un’ora intera ma non era riuscita a fare molto altro che accendere il computer e bere una tazza di caffè. Aveva la mente del tutto consumata dai ricordi della sera precedente. Il viso di Ben continuava a tornarle in mente. Si sentiva spaventata ogni volta che riviveva quella terribile serata.

      Il telefono si illuminò, guardò lo schermo e vide il nome di Ben che lampeggiava per l’ennesima volta. Chiamava, ancora. Emily non aveva risposto a una sola delle sua telefonate. Che cosa c’era da dire adesso? Aveva avuto sette anni per decidere se volesse stare con lei o meno – un tentativo dell’ultimo minuto per salvare la situazione non sarebbe servito adesso.

      Squillò il telefono dell’ufficio e lei fece un balzo sulla sedia, poi lo afferrò.

      “Pronto?”

      “Ciao, Emily, sono Stacey del quindicesimo piano. Ho qui un appunto che dice che saresti venuta alla riunione di stamattina e volevo sapere perché non ti sei presentata.”

      “CAZZO!” urlò Emily, buttando giù il telefono. Si era completamente dimenticata della riunione.

      Saltò su dalla scrivania e attraversò di corsa l’ufficio fino all’ascensore. La sua agitazione sembrava divertire i colleghi, che si misero a bisbigliare come bambini scemi. Quando raggiunse l’ascensore, schiacciò il palmo della mano contro il bottone.

      “Muoviti, muoviti, muoviti!”

      Ci volle un’eternità, ma alla fine l’ascensore arrivò. Quando le porte si aprirono, Emily si precipitò fuori solo per scontrarsi con qualcuno che stava arrivando. Mentre indietreggiava, senza fiato, si accorse che la persona con cui si era scontrata era il suo capo, Izelda.

      “Mi scusi tanto,” balbettò Emily.

      Izelda la squadrò da capo a piedi. “Per cosa, esattamente? Per essermi venuta addosso o per aver saltato la riunione?”

      “Tutte e due,” rispose Emily. “Ci stavo andando adesso. Mi è completamente passata di mente.”

      Sentiva ogni singolo occhio dell’ufficio puntato sulla schiena. L’ultima cosa di cui aveva bisogno adesso era una dose di umiliazione pubblica, qualcosa che Izelda amava molto dispensare.

      “Ce l’ha un calendario?” disse Izelda freddamente, incrociando le braccia.

      “Sì.”

      “E lo sa come funziona? Come ci si scrive sopra?”

      Dietro di lei, Emily riusciva a sentire gli altri reprimere le risate. Il suo primo istinto fu di appassire come un fiore. Essere presa in giro davanti a un pubblico era la sua idea di incubo. Ma proprio come al ristorante la sera precedente, uno strano senso di chiarezza la assalì. Izelda non era un’autorità da ammirare per forza e ai cui capricci adattarsi. Era solo una donna amareggiata che sfogava la rabbia su chi poteva. E quei colleghi che sparlavano non avevano nessuna importanza.

      Un’improvvisa ondata di consapevolezza la inondò. Ben non era l’unica cosa che non le piaceva della sua vita. Odiava anche il suo lavoro. Quella gente, quell’ufficio, Izelda. Era bloccata lì da anni, così come era rimasta bloccata con Ben. E non aveva più intenzione di sopportarlo.

      “Izelda,” disse Emily, chiamando il suo capo per nome per la prima volta, “Sarò sincera. Non sono venuta alla riunione, mi è sfuggito di mente. Non è una tragedia.”

      Izelda la guardò torva.

      “Come si permette!” sbottò. “La farò rimanere inchiodata alla scrivania fino a mezzanotte per il prossimo mese finché non avrà imparato che significa essere sollecita!”

      Con quelle parole, Izelda la sfiorò passando, spingendole la spalla, come per andarsene infuriata, con lo sguardo che diceva che la questione era chiusa.

      Ma quello di Emily diceva altrimenti.

      Emily la raggiunse e la afferrò per la spalla, fermandola.

      Izelda si voltò e le fece una smorfia, scostando le mani di Emily come se fosse stata morsa da un serpente.

      Ma Emily non cedette.

      “Non avevo finito,” continuò Emily, tenendo la voce completamente calma. “La tragedia è questo posto. Sei tu. È questo stupido, insignificante, alienante lavoro.”

      “Prego?” urlò Izelda, il viso rosso di rabbia.

      “Mi hai sentita,” rispose Emily. “A dire il vero, credo proprio che tutti mi abbiano sentita.”

      Emily guardò i colleghi, che la fissavano di rimando, sbalorditi. Nessuno si aspettava che la tranquilla e accondiscendente Emily scattasse così. Le venne in mente che Ben le aveva detto che stava facendo “una scenata” la sera precedente. Ed ecco che ne faceva un’altra. Solo che questa volta si stava divertendo.

      “Puoi prendere il tuo lavoro, Izelda,” aggiunse Emily, “e ficcartelo