del piano terra per quella che, come realizzò con assoluto sollievo, sarebbe stata l’ultima volta della sua vita, poi guardò la scena dei suoi scioccati colleghi che la fissavano mentre le porte si chiudevano e li lasciavano fuori. Sospirò profondamente, sentendosi più libera e più leggera di quanto si fosse mai sentita prima.
*
Emily corse su per le scale che portavano al suo appartamento, accorgendosi che quello non era il suo appartamento – non lo era mai stato. Aveva sempre sentito di vivere in casa di Ben, di dover essere il più piccola e il più discreta possibile. Rovistò in cerca delle chiavi, grata che Ben fosse al lavoro e di non dover averci a che fare.
Entrò e guardò la casa con occhi diversi. Niente era di suo gusto lì. Tutto sembrava aver preso un altro significato: l’orribile divano per cui lei e Ben avevano litigato al momento dell’acquisto (litigio che aveva vinto lui); lo stupido tavolino da caffè che lei voleva buttare via perché una delle gambe era più corta delle altre e traballava sempre (ma al quale Ben era legato da “ragioni sentimentali” e che quindi era rimasto); l’enorme tv che era costata decisamente troppo e che occupava troppo spazio (ma di cui Ben aveva insistito di aver bisogno per guardare lo sport perché era “l’unica cosa” che lo rilassava). Afferrò un paio di libri dallo scaffale, notando che i suoi romanzi rosa erano stati relegati nell’ombra dello scaffale più basso (Ben si preoccupava sempre che i suoi amici lo avrebbero giudicato poco intellettuale se avessero visto dei romanzi rosa sullo scaffale – lui preferiva i saggi accademici e filosofici, anche se sembrava non leggerli mai).
Stava guardando al di sopra delle fotografie sulla mensola per vedere se ci fosse qualcosa che valesse la pena prendere, quando la colpì il fatto che in ogni sua foto lei era insieme alla famiglia di Ben. Al compleanno della nipote di Ben, al matrimonio della sorella di Ben. Non c’era una sola fotografia di lei con sua mamma, l’unica persona della famiglia di Emily, e tanto meno di Ben con loro due. D’un tratto fu colpita dal fatto che era una straniera nella sua stessa vita. Aveva seguito la strada di qualcun altro per anni invece di costruirsi la sua.
Prese d’assalto l’appartamento e finì in bagno. Qui c’erano le sole cose di cui a lei importava davvero – i suoi prodotti per il bagno e i trucchi. Ma anche questi costituivano un problema per Ben. Si era sempre lamentato di quanti prodotti avesse, rammaricandosi per lo spreco di soldi.
“Sono i miei soldi che spreco!” urlò Emily al suo riflesso nello specchio buttando tutti i suoi averi in una capiente borsa.
Sapeva di avere l’aria di una pazza, a sfrecciare su e giù così per il bagno gettando bottiglie mezze vuote di shampoo nella borsa, ma non le importava. La sua vita con Ben era stata solo una bugia, e voleva uscirne il più presto possibile.
Poi corse nella camera accanto e afferrò la sua valigia da sotto il letto. La riempì velocemente con tutti i vestiti e le scarpe. Finito di raccogliere le sue cose, portò tutto fuori in strada. Poi, come gesto simbolico finale, tornò nell’appartamento e pose la sua chiave sul tavolino da caffè “sentimentale” di Ben, poi uscì, per non tornare mai più.
Fu solo lì in piedi sul cordolo del marciapiede che Emily prese coscienza di ciò che aveva fatto. Aveva perso il lavoro e la casa nello giro di poche ore. Diventare single era una cosa, ma perdere tutta la sua vita era decisamente un’altra.
Piccoli palpiti di panico cominciarono a percorrerla. Le mani le tremavano mentre tirava fuori il cellulare e componeva il numero di Amy.
“Ehi, che c’è?” chiese Amy.
“Ho fatto una cosa stupida,” rispose Emily.
“Dimmi…” la sollecitò a continuare Amy.
“Ho lasciato il lavoro.”
Sentì Amy sospirare dall’altra parte della cornetta.
“Oh, grazie a Dio,” disse la voce della sua amica. “Pensavo che mi avresti detto di essere tornata con Ben.”
“No, no, tutto il contrario. Ho fatto le valigie e ho lasciato la casa. Sto qui per la strada come una barbona.”
Amy cominciò a ridere. “Mi hai dipinto proprio una bella scena.”
“Non è divertente!” replicò Emily, più spaventata che mai. “Cosa faccio adesso? Ho lasciato il lavoro. Non riuscirò a trovare un appartamento senza un lavoro!”
“Devi ammettere che un po’ divertente lo è,” rispose Amy sogghignando. “Porta tutto qui,” aggiunse con nonchalance. “Lo sai che puoi restare da me finché non sistemi le cose.”
Ma Emily non voleva. Praticamente aveva trascorso anni della sua vita vivendo in casa di qualcun altro, costretta a sentirsi un’ospite nella sua stessa casa, come se Ben le stesse facendo un favore ad averla intorno. Non voleva più vivere così. Aveva bisogno di costruirsi la sua vita, di stare in piedi da sola.
“Apprezzo l’offerta,” disse Emily, “ma devo occuparmi di me stessa per un po’.”
“Lo capisco,” rispose Amy. “E allora che fai? Lasci la città per un po’? Ti schiarisci le idee?”
Le fece venire in mente una cosa. Il padre di Emily aveva una casa nel Maine. Ci avevano trascorso le estati quando lei era piccola, ma era rimasta vuota da quando vent’anni prima era scomparso. Era vecchia, decisamente particolare, ed era stata fantastica a un certo punto, in una specie di modo storico; era più come un contorto Bed and Breakfast di cui suo padre non sapeva che farnese, che una casa.
All’epoca aveva un’aria appena passabile, ed Emily sapeva che non sarebbe stata presa bene adesso, dopo vent’anni di abbandono; e non le avrebbe dato la stessa sensazione di vuoto – non ora che non era più una bambina. Senza pensare che non si era proprio in estate. Era febbraio!
Eppure l’idea di trascorrere qualche giorno seduta sul portico, a guardare l’oceano, in un luogo che era suo (più o meno) all’improvviso le sembrò molto romantica. Lasciare New York per il weekend sarebbe stato un buon modo per chiarirsi le idee e cercare di decidere cosa fare dopo.
“Devo andare,” disse Emily.
“Aspetta,” rispose Amy. “Prima dimmi dove vai!”
Emily fece un respiro profondo.
“Vado nel Maine.”
CAPITOLO TRE
Emily dovette prendere molte metropolitane per raggiungere il parcheggio a lungo termine a Long Island City dove si trovava la sua vecchia, abbandonata e malconcia auto. Erano passati anni da quando l’aveva guidata, perché Ben aveva sempre preso su di sé tutte le responsabilità dell’autista per esibire la sua preziosa Lexus, e mentre Emily attraversava a piedi l’enorme parcheggio pieno di ombre, trascinando la valigia dietro di sé, si chiedeva se fosse ancora in grado di guidare. Era un’altra di quelle cose che si era lasciata scivolare via nel corso della sua relazione.
Già il viaggio per arrivare lì – a quel parcheggio nei sobborghi della città – era sembrato infinito. Mentre si avvicinava alla macchina, mentre i suoi passi riecheggiavano nel parcheggio freddo, si sentiva quasi troppo stanca per andare avanti.
Stava commettendo un errore? si chiese. Sarebbe dovuta tornare indietro?
“Eccola.”
Emily si voltò e vide l’addetto al garage che sorrideva alla sua auto malconcia, sembrava con pietà. Allungò un braccio e le porse le chiavi.
Il pensiero di avere ancora otto ore di viaggio davanti era soverchiante, impossibile. Era già esausta, fisicamente ed emotivamente.
“Ha intenzione di prenderle?” chiese l’uomo alla fine.
Emily sbatté le palpebre, non rendendosi conto di aver avuto la testa da un’altra parte.
Se ne stava lì, in piedi, sapendo che quello era un momento decisivo, per certi versi. Sarebbe crollata, sarebbe tornata di corsa alla sua vecchia vita?