e delle polveri. Fu composto di quattro membri espertissimi, dottissimi in materia. Barbicane, con voto preponderante in caso di divisione, il generale Morgan, il maggiore Elphiston, ed infine l’inevitabile J. T. Maston, a cui furono affidate le funzioni di segretario relatore.
Il giorno 8 ottobre, il Comitato si radunò dal presidente Barbicane, Republican-Street, n. 3. Siccome era importante che lo stomaco non venisse a turbare colle sue grida così seria discussione, i quattro membri del Gun-Club presere posto ad una tavola coperta di sandwiches e di cogome da tè considerevoli. Tosto J. T. Maston assicurò la penna al suo appiccàgnolo di ferro, e la seduta cominciò.
Barbicane prese la parola:
«Miei cari colleghi, diss’egli, noi dobbiamo risolvere uno de’ più importanti problemi della balistica, la vera dottrina del moto dei proiettili, cioè dei corpi lanciati nello spazio da una forza d’impulso qualsiasi, poi abbandonati a sè stessi.
– Oh! la balistica, la balistica! esclamò J. T. Maston con voce commossa.
– Sarebbe forse parso più logico, riprese Barbicane, di consacrare questa prima seduta alla discussione sulla macchina di lanciare.
– Certo, rispose il generale Morgan.
– Tuttavia, riprese Barbicane, dopo matura riflessioni, mi è sembrato che la questione del proiettile debba avere la preminenza su quella del cannone, e che le dimensioni di questo debbano dipendere dalle dimensioni di quello.
– Domando la parola, esclamò J. T. Maston.
La parola gli fu accordata con quella deferenza che meritavasi il suo magnifico passato.
«Bravi amici, diss’egli con voce ispirata, il nostro presidente ha ragione di attribuire l’importanza maggiore alla quistione del proiettile! Questa palla che noi stiamo per lanciare nella luna è il nostro messaggero, il nostro ambasciatore, e vi chiedo licenza di considerarlo da un punto di vista puramente morale.»
Il modo novissimo di ragionare d’un proiettile punse non poco la curiosità dei membri del Comitato; essi accordarono quindi la più viva attenzione alle parole di J. T. Maston.
«Miei cari colleghi, ripigliò quest’ultimo, io sarò breve; lascerò da banda la palla fisica, la palla che uccide, per non considerare che la palla matematica, la palla morale. La palla è per me la più brillante manifestazione dell’umana potenza: è in essa che la nostra facoltà si riassume tutta intera, si fu nel crearla che l’uomo si avvicinò meglio al Creatore!
– Benissimo! disse il maggiore Elphiston.
– Infatti, proseguì l’oratore, se Dio ha fatto le stelle ed i pianeti, l’uomo ha fatto la palla, questo criterium di velocità terrestre, questa riduzione degli astri erranti nello spazio, e che non sono, per dire il vero, che proiettili! A Dio la velocità dell’elettricità, la velocità della luce, la velocità delle stelle, la velocità dei pianeti, la velocità dei satelliti, la velocità del suono, la velocità del senso; ma a noi la velocità della palla, cento volte superiore alla velocità dei convogli ferroviari e dei cavalli più rapidi!»
J. T. Maston era trasportato; la sua voce pigliava inflessioni liriche nel cantare il suo inno della palla da cannone.
«Volete delle cifre? ei riprese, eccone di eloquenti assai. Pigliate semplicemente la modesta palla da cannone da ventiquattro[33]: se corre ottocentomila volte meno velocemente dell’elettricità, seicentoquarantamila meno della luce, settantasei meno velocemente della Terra nel suo moto di traslazione intorno al Sole, però, al suo uscire dal cannone, supera essa la rapidità del suono[34], fa duecento tese al secondo, duemila tese in dieci secondi, quattordicimila al minuto (6 leghe), ottocentoquaranta miglia all’ora (360 leghe), cioè la velocità dei punti dell’equatore nel movimento di rotazione del globo, sette milioni e trecentotrentaseimila e cinquecento miglia all’anno (3,155,760 leghe). Una palla impiegherebbe undici giorni per andare nella Luna, dodici anni per giungere al Sole, trecentosessant’anni per raggiungere Nettuno ai confini del mondo solare. Ecco ciò che farebbe questa modesta palla da cannone, l’opera delle nostre mani! Che sarà dunque allorchè, ventuplicando tal velocità, noi la lancieremo con una rapidità di sette miglia al secondo! Ah! palla superba! splendido proiettile! Mi riesce grato il pensare che sarai ricevuto lassù cogli onori dovuti ad un ambasciatore terrestre!»
La gonfia perorazione fu accolta da applausi, e J. T. Maston, commosso, sedette tra i complimenti dei suoi colleghi.
«Ed ora, disse Barbicane, che abbiamo fatto larga parte alla poesia, entriamo direttamente nella quistione.»
– Siamo pronti, risposero i membri del Comitato, sorbendo ciascuno mezza dozzina di sandwiches.
– Voi sapete qual è il quesito da risolvere, riprese il presidente: si tratta d’imprimere ad un proiettile una velocità di dodici mila iardi al secondo. Ho motivo di credere che ci riusciremo. Ma in tal momento esaminiamo le velocità ottenute fin qui, e il generale Morgan potrà edificarci in proposito.
– Tanto più facilmente, risposte il generale, che durante la guerra io era membro della Commissione degli esperimenti. Vi dirò dunque che i cannoni da cento di Dahlgreen, che portavano a duemila e cinquecento tese, imprimevano al proiettile una velocità iniziale di cinquecento iardi al secondo.
– Bene, e la Columbiad Rodman[35]? domandò il presidente.
– La Columbiad Rodman, provata nel forte Hamilton, vicino a Nuova-York, scagliava una palla del peso di mezza tonnellata, alla distanza di sei miglia, con una velocità di ottocento iardi ogni secondo, risultato non mai ottenuto da Armstrong a Palliser in Inghilterra.
– Oh! gli Inglesi! esclamò J. T. Maston dirigendo verso l’orizzonte dell’oriente il suo terribile appiccàgnolo di ferro.
– Per cui, riprese Barbicane, gli ottocento iardi sarebbero la velocità massima ottenuta finora? – Sì, rispose Morgan.
– Pure dirò, replicò J. T. Maston, che se il mio mortaio non fosse scoppiato…
– Sì, ma è scoppiato, aggiunse Barbicane con gesto benevolo. Pigliamo dunque per punto di partenza la velocità di ottocento iardi. Bisognerà ventuplicare. E però, serbando per altra seduta la discussione sui mezzi destinati a produrre questa velocità, io richiamerò la vostra attenzione, miei cari colleghi, sulle dimensioni che voglionsi dare alla palla. V’immaginerete certo che qui non si tratta di pensare a proiettili al di qua di una mezza tonnellata!
– E perchè no? domandò il maggiore.
– Perchè questa nostra palla, rispose vivamente J. T. Maston, dev’essere grossa abbastanza da attirare l’attenzione degli abitanti della Luna, se pure esistono.
– Certo, rispose Barbicane, e per altra ragione ancor più importante.
– Che volete dire, Barbicane? domandò il maggiore.
– Voglio dire che non basta lanciare un proiettile e poscia non darsene più pensiero; bisogna che lo si segua durante il viaggio fino al momento in cui esso raggiungerà la meta.
– Che! esclamarono il generale ed il maggiore un po’ sorpresi di quella proposta.
– Senza dubbio, riprese Barbicane da uomo sicuro del fatto suo, senza dubbio, altrimenti la nostra esperienza non darebbe alcun risultato.
– Ma allora, replicò il maggiore, darete dimensioni enormi al proiettile!
– No, vogliate ascoltarmi. Sapete che gli strumenti d’ottica hanno acquistato una grande perfezione: con certi telescopi si è giunti ad ottenere degl’ingrandimenti di seimila volte e ad avvicinare la Luna a quaranta miglia circa (sedici leghe). Ora, a questa distanza gli oggetti che hanno sessanta piedi di fianco sono perfettamente visibili. Se non si è spinta più in là la potenza di penetrazione dei telescopi, gli è che tal potenza non si esercita che a detrimento della chiarezza, e la Luna, la quale è solo uno specchio che riflette, non manda luce così intensa da permettere si possano portare gli ingrandimenti al