Луиджи Пиранделло

La giara


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dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano.

      – Coraggio, Zi' Dima! – gli disse quello, vedendogli la faccia alterata.

      Zi' Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt'in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc'anzi. Prima di cominciare a dare i punti:

      – Tira! – disse dall'interno della giara al contadino. – Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, si o no, come una campana anche con me qua dentro? Va', va' a dirlo al tuo padrone!

      – Chi è sopra comanda, Zi' Dima, – sospirò il contadino – e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti.

      E Zi' Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l'uno di qua e l'altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un'ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo.

      – Ora ajutami a uscirne, – disse alla fine Zi' Dima.

      Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi' Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora – non c'era via di mezzo – per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre.

      Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi' Dima, dento la giara, era come un gatto inferocito.

      Fatemi uscire! – urlava – . Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!

      Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci.

      – Ma come? là dentro? s'è cucito là dentro?

      S'accostò alla giara e gridò al vecchio:

      – Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio… così! e la testa… su… no, piano! Che! giù… aspettate! così no! giù, giù… Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! – si mise a raccomandare tutt'intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. – Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo… La mula!

      Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana.

      – Bella! Rimessa a nuovo… Aspettate! – disse al prigioniero. – Va' a sellarmi la mula! – ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po' che mi capita! Questa non è giara! quest'è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!»

      E accorse a regger la giara, in cui Zi' Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.

      – Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l'avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell'interesse vostro… Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano?

      – Non voglio nulla! – gridò Zi' Dima. – Voglio uscire.

      – Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.

      Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso:

      – Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l'abbia dato.

      Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava.

      Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell'avvocato; ma gli toccò d'attendere un bel po', prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì.

      – Che c'è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!

      Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com'era stato, per farci su altre risate. "Dentro, eh? S'era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te… tene… tenerlo là dentro… ah ah ah… ohi ohi ohi… tenerlo là dentro per non perderci la giara?"

      – Ce la devo perdere? – domandò lo Zirafa con le pugna serrate. – Il danno e lo scorno?

      – Ma sapete come si chiama questo? – gli disse infine l'avvocato. – Si chiama sequestro di persona!

      – Sequestro? E chi l'ha sequestrato? – esclamò lo Zirafa. – Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io?

      L'avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall'altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine.

      – Ah! – rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara!

      – Piano! – osservò l'avvocato. – Non come se fosse nuova, badiamo!

      – E perché?

      – Ma perché era rotta, oh bella!

      – Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato!

      L'avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso.

      – Anzi – gli consigliò – fatela stimare avanti da lui stesso.

      – Bacio le mani – disse Don Lollò, andando via di corsa.

      Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi' Dima s'era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi.

      Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara.

      – Ah! Ci stai bene?

      – Benone. Al fresco – rispose quello. – Meglio che a casa mia.

      – Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr'onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso?

      – Come me qua dentro? – domandò Zi' Dima.

      I villani risero.

      – Silenzio! – gridò lo Zirafa. – Delle due l'una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com'è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu.

      Zi' Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse:

      – Rispondo. Se lei me l'avesse fatta conciare col mastice solo, com'io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no.

      – Un