Giovanni Mongiovì

Le Tessere Del Paradiso


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pure a morire per espiare il male che aveva commesso, adesso cominciava a provare nostalgia per la vita che stava per lasciare. Tuttavia, coerentemente alla sua prima decisione, non disse più nulla e con rassegnazione si fece condurre da quegli uomini sino alla tana del lupo.

      Percorrendo l’ampia via Marmorea, incontrarono un paio di guardie della ronda. Uno di quei soldati corse subito verso la chiesa dove spesso si intratteneva a pregare Majone di Bari, per avvisarlo dell’avvenuta cattura. Ogni uomo in armi era stato infatti istruito che avrebbe dovuto condurre il ricercato direttamente al cospetto dell’Ammiraglio, ovunque egli si trovasse.

      Non erano ancora giunti all’altezza dell’incrocio da cui si imbocca la via per la chiesa edificata da Majone – guarda caso costruita proprio accanto a quella di Giorgio d’Antiochia, il suo più illustre predecessore – che videro arrivare la guardia inviata prima.

      «Al palazzo dell’Arcivescovo, presto!»

      Ripresero perciò a percorrere la strada principale che divide il Cassaro, in direzione del Palazzo Reale.

      Dopo un po’ passarono sotto l’abitazione di Giordano di Rossavilla e Alessio non poté fare a meno di pensare a come tutto fosse cominciato con l’inganno di quell’uomo e con l’illusione di ritrovare Zoe. Questa volta tutto taceva e Alessio sperò che il suo nobile rivale lo seguisse nella morte quella stessa notte, non riprendendosi mai più dalla sua malattia.

      Giunti sulla piazza della Cattedrale svoltarono a destra, e qui, proprio sull’incrocio, aspettarono che la guardia entrasse nel palazzo dell’Arcivescovo, sito sul retro della grande chiesa, per avvertire l’Ammiraglio. Venne quindi fuori Majone, il quale, tutto concitato, si avvicinò agli uomini che tenevano in custodia Alessio. Vittore e Mamiliano trattenevano ancora il prigioniero per le braccia quando l’Ammiraglio lo prese per il mento e lo indusse a guardarlo negli occhi. Sorprendentemente, lo stupore colse Alessio più di Majone. Adesso il maestro d’arte era sicuro che sarebbe morto e probabilmente anche quella stessa notte. Ecco infatti svelata l’identità dell’uomo che lo aveva aggredito alla locanda!

      La notte in cui era stato ucciso il gaito Luca, Majone si trovava al piano superiore di quello stesso edificio ed era in compagnia di una donna, presumibilmente della stessa signora affidata alla cura dell’eunuco, ovvero la Regina. L’Ammiraglio temeva la testimonianza di Alessio più di quanto Alessio temesse la testimonianza dell’Ammiraglio. Le voci sulla tresca tra il primo uomo del Re e la Regina erano diffuse in tutto il Regno, ma, di fronte ad una prova del genere, per certo neanche l’indolente Guglielmo sarebbe rimasto indifferente.

      Alessio strizzò gli occhi e spalancò la bocca per la meraviglia di quell’incontro. Majone invece incattivì lo sguardò e digrignò i denti.

      «Che questa bestia non viva oltre questo momento!» sentenziò, indicando in tal modo alle sue guardie quale fosse il prossimo ordine da portare a termine.

      Strapparono dunque Alessio dalle mani di Vittore e lo condussero per altri luoghi. Lo sfortunato artista passò ora dinanzi all’ingresso del palazzo dell’Arcivescovo e qui, vedendo stazionare sulla strada tutto il seguito dell’Ammiraglio e credendo che questi avessero a che fare con Ugone, il prelato a capo di Palermo, supplicò:

      «Signori, vi prego, lasciatemi parlare col Vescovo; sono anch’io un uomo di religione!»

      Quelli lo fissarono con apparente indifferenza e tornarono a guardare davanti a sé, verso Majone. Intanto alle spalle di questi si udiva il rumore delle sbarre che la servitù stava mettendo alle porte del palazzo, richiudendo l’ingresso con un’inconsueta premura.

      Alessio, che di fronte alla morte non voleva più morire, puntò i piedi sui basoli della strada e gridò:

      «In nome di Dio, aiutatemi!»

      «Non date peso a quel greco!» urlò Majone, rivolgendosi ai suoi sulla porta e preoccupato che il condannato ne dicesse una di troppo.

      Adesso Alessio si concentrò sulla lama della spada che già una delle guardie aveva sguainato. Pensò che morire trafitto fosse meno doloroso e infamante che morire impiccato. Ora si attaccava a quest’unica consolazione, mentre uno dei due soldati indicava all’altro l’imbocco di una stradina, lì dove il condannato sarebbe stato ucciso.

      «Signore, che la morte copra i miei peccati non redenti!» esclamò il maestro d’arte, guardando il cielo.

      E poi, rivolgendosi alle guardie, pregò:

      «Vi chiedo solo di avere una sepoltura…»

      Ma quelli, saraceni di lingua araba, non compresero nulla, né le parole di Alessio né che da quella notte, quella del 10 novembre 1160, tutto sarebbe cambiato.

      PARTE II – LA MANO DI MALACHITE

      Capitolo 8

      1156 (551 dall’egira) Balermus e dintorni

      La folla si stringeva compatta attorno alla scena, senza dir parola e senza commentare. In molti erano infatti i saraceni che osservavano silenziosi, oltre le spalle delle guardie reali, oltre quella coltre di fumo che si innalzava al cielo congiuntamente alle loro preghiere. Sulla sponda sinistra della foce del wādī al-‘Abbās27, appena fuori dalle mura della città, quel giorno del 1156 il boia aveva appiccato un fuoco che non sarebbe durato fino a sera… ma che tuttavia avrebbe continuato ad ardere per anni nel cuore di Amjad.

      Per ogni giovane islamico non esiste ricordo d’infanzia più importante del khitān28, e per Amjad, che immaginava la circoncisione come una sorta di festa in suo onore, quel giorno della sua fanciullezza sarebbe stato ancor più cruciale.

      Suo padre era appena morto in battaglia mentre combatteva nell’esercito di Re Ruggero contro l’Imperatore d’Occidente. Sua madre se n’era andata poco dopo, dando alla luce la piccola Naila. E così Amjad e Naila erano finiti nelle mani dello zio, un uomo tanto povero quanto spietato. Questi, dichiarando di non poter togliere il pane dalla bocca dei figli per darlo agli estranei, aveva infatti deciso che avrebbe coperto le spese per crescere la piccola Naila con i proventi derivati dalla vendita di Amjad. L’aveva dato ad un mercante e questi, valutando che il bambino era bello, fine e dalla voce aggraziata, l’aveva rivenduto agli agenti del Palazzo del Re. Ed ecco arrivare quel giorno, quando all’età di nove anni era stato convocato per il khitān. Amjad non poteva saperlo, ma, in luogo del suo prepuzio, i medici di corte stavano per rimuovere ciò che gli avrebbe impedito d’ora in poi di essere considerato un uomo. Amjad era stato evirato, sfregiato nella sua virilità, affinché potesse comparire nelle stanze private dell’harem. In seguito, poche settimane dopo, aveva subito anche il battesimo, ricevendo un nuovo nome: Mattia, come l’apostolo chiamato a sostituire il traditore di Cristo.

      Per un ragazzino di nove anni la vita di corte, con i suoi sfarzi e la sua opulenza, esercitava sicuramente un fascino irresistibile. Quando Amjad accarezzò le sue morbide vesti di seta, quando assaggiò la prelibatezza dei cibi del Re, quando si ritrovò a maneggiare l’oro e i gioielli destinati alle concubine, si convinse che la sua vita fosse migliorata.

      Verso i quindici anni cominciò ad attirare le attenzioni degli uomini che gravitavano attorno alla figura del Re. I suoi modi raffinati e la sua pelle liscia costituivano una sfiziosa deviazione rispetto alle usuali donne di malcostume. Così Amjad crebbe in fama e potere, e ben presto, poco più che ventenne, giunse nelle camere della nuova principessa, una ragazza sedicenne di nome Margherita, proveniente dalla Navarra e data in moglie all’erede Guglielmo. Di Margherita ne divenne presto il confidente e, quando lei venne incoronata Regina, rifulse parte di quella gloria divenendo uno degli eunuchi più potenti e vicini al Re. Per Amjad, tuttavia, esisteva pure un’altra donna, una che in cuor suo destava quel sentimento d’amore che per forza di cose non poteva essere accompagnato dalla passione. E proprio perché Amjad non sapeva cosa fosse la passione per una donna, proprio perché non aveva altro a cui attaccarsi se non all’affetto di sangue, che cominciò a legarsi morbosamente alla sua giovane sorella. La tolse dalle grinfie dello zio, il quale per certo l’avrebbe venduta una volta raggiunta l’età più conveniente, e la fece trasferire in un ricco appartamento del Cassaro, nel cuore di