Jones, lo studente che siamo venute a cercare. So che credi che non sia un granché come pista, ma pensavo stessi almeno prestando attenzione.”
Zoe scrollò nuovamente le spalle, senza scusarsi. Aveva cose migliori, più importanti, a cui pensare. Le equazioni. Il fatto che non fosse ancora neanche minimamente vicina a risolverle. Attendere che i contatti della dottoressa Applewhite dessero loro un’occhiata e le rispondessero qualcosa era simile a un’agonia.
“Comunque, questo è importante. Jones frequentava anche un corso di fisica. E indovina chi era lo studente tutor di quel corso?”
Zoe la fissò, inflessibile. Non aveva intenzione di fare questo gioco.
Shelley proseguì, senza perdersi d’animo. “Cole Davidson. Ossia, la vittima numero uno. Jones aveva un legame personale con entrambe le vittime.”
“Ma non frequentava matematica.” Zoe non riuscì più a trattenersi. Si rifiutava di credere che le equazioni fossero qualcosa di casuale, soltanto scarabocchi concepiti per distrarle. Avevano un ruolo fondamentale in questo caso. Dovevano averlo.
Perché, altrimenti, voleva dire che Zoe non era così utile per la soluzione di questo caso come credeva di essere, e che si trattava soltanto di un noioso, ordinario omicidio. Il motivo per il quale questa cosa la infastidisse così tanto non riusciva pienamente a capirlo. Sapeva soltanto che avrebbe dovuto risolvere le equazioni, che quelle fossero la chiave.
“Ascolta, so che se volessi potresti impormi la tua autorità. Sei l’agente senior. Ma non voglio finire con un caso irrisolto senza poter dire che non abbiamo lasciato nulla di intentato. Vado a interrogarlo,” disse Shelley con decisione, aprendo la portiera e uscendo dall’auto.
Zoe rimase seduta per un istante, quindi sospirò e uscì anche lei. In fin dei conti, erano partner. Lavoravano insieme. Anche se Zoe non credeva affatto che tutto questo fosse necessario, avrebbe comunque dovuto supportare la sua partner.
E così avrebbe fatto.
Raggiunse Shelley, che stava attraversando il campus quanto più velocemente le sue gambe le consentissero di fare, qualche minuto dopo. L’altra donna emanava un’energia scoppiettante, una rabbia che spuntava da lei come gli aculei di un istrice. Zoe conosceva bene quel tipo di sensazione. Lei scatenava sempre la rabbia negli altri, soprattutto quando non riusciva a capire cosa avesse fatto di sbagliato.
Almeno questa volta ne era consapevole.
“Ti darò ascolto,” disse Zoe. “Se credi che questo ragazzo ci fornirà qualcosa, ti appoggerò.”
I passi di Shelley esitarono un po’, prima di riprendere il cammino. “Grazie,” rispose, un po’ troppo freddamente. Zoe comprese che era ancora arrabbiata, ma per quale motivo? Le aveva dato ciò che voleva, no?
Ma queste domande avrebbero dovuto essere messe da parte e riprese in seguito, o magari mai più, perché erano arrivate all’esterno di una palazzina ai margini del campus. Shelley aveva chiuso la mappa sul cellulare, e Zoe dedusse di conseguenza che dovevano essere arrivate. Dalla strada, capì anche che la musica che rimbombava dalle finestre, per quanto chiuse, superava i limiti urbani notturni di rumore.
Uno studente universitario, che doveva avere al massimo diciannove anni, stava barcollando all’ingresso quando si avvicinarono. Aveva un bicchiere rosso in mano, e armeggiava con una sigaretta. Quando alzò lo sguardo e vide le due donne avanzare verso di lui, i suoi occhi si spalancarono in modo quasi comico. I duecento millilitri di liquido contenuti nel bicchiere furono lanciati alle sue spalle per finire su qualche cespuglio, e il ragazzo si allontanò di corsa, stringendo il recipiente di plastica ormai vuoto come se la sua vita dipendesse dal tenerlo alla larga dalle loro mani.
“Un party,” disse Zoe, riconoscendone i segnali.
Tirò nuovamente fuori il suo telefono e aprì una fotografia di Jensen Jones presa dal suo documento di immatricolazione al college. Era giovane, dall’aspetto abbastanza curato. Capelli castani, un naso largo, occhi marroni. Nulla di particolare.
Il che era una cattiva notizia, per via di quello che disse dopo Shelley. “Dovremo tenere gli occhi aperti per trovarlo. Immagino che la maggior parte di loro si sparpaglierà e cercherà di scappare non appena saremo dentro. Abbiamo sicuramente l’aspetto di agenti dell’FBI, o quantomeno di poliziotti. Potremmo essere costrette ad acciuffarlo mentre cerca di scappare.”
“Andare a fare baldoria subito dopo aver ucciso due persone?” domandò Zoe. “È davvero considerata una reazione normale?”
“No, non è normale, ma è già successo,” rispose Shelley. “Potrei citarti un paio di casi, ma probabilmente sarebbe più efficace trovarlo e chiederglielo.”
“Dopo di te,” disse Zoe, indicando la porta.
Shelley fece un respiro profondo, come per prepararsi psicologicamente, quindi annuì. “Andiamo.”
Oltre la soglia dell’edificio, il rumore era molto più assordante. A complicare la loro ricerca c’erano tre porte aperte soltanto al piano terra; i residenti di ciascun alloggio aprivano i propri spazi per trasformarli in una nuova area della festa. Il party si era diffuso nel corridoio, al piano di sopra e, almeno a giudicare dai tanti giovani che si muovevano in tutte le direzioni, all’interno di qualsiasi alloggio dell’edificio.
La comparsa di Zoe e Shelley non fu notata immediatamente. Un paio di studenti le aveva viste ed evitate, volendo indubbiamente mettersi al riparo da eventuali problemi.
Ma poi accadde la cosa peggiore possibile: uno dei ragazzi, un atleta alto un metro e ottanta con il fisico di un quarterback, gridò in preda al panico. “Gli sbirri!”
L’annuncio si propagò in tutto l’edificio come un incendio, e scoppiò il panico. Era inutile tentare di rimanere in incognito. Zoe cercò il suo distintivo nella tasca interna del giubbotto e lo sollevò per mostrarlo. “FBI. La festa è finita. Ora!”
L’effetto fu immediato e tangibile. Trenta studenti scapparono via, superandola in rapida successione, tutti dalle camere degli alloggi inferiori. La voce si sparse anche al piano di sopra, e le persone si scaraventarono giù, inciampando e facendo cadere le birre sulla moquette.
Zoe attese nell’atrio al piano di sotto, mentre Shelley entrò in tutte e tre le stanze del piano terra, facendo fuoriuscire altri studenti. Dal punto in cui si trovava, con gli studenti che le correvano accanto senza che lei facesse alcun tentativo per fermarli, Zoe riuscì a capire che il posto era un disastro. Bicchieri rossi accartocciati, cibo e bevande rovesciate e l’occasionale chiazza di vomito coprivano qualsiasi superficie in vista. Era una festa grossa: il tipo di party leggendario di cui i ragazzi avrebbero parlato per mesi. Peccato l’avessero interrotto.
Zoe non poteva dire di provare alcun tipo di nostalgia. Era stata invitata raramente a qualsiasi tipo di festa, ed era ancora più raro che vi avesse partecipato. Allora, come ora, questo genere di party era decisamente insopportabile per lei. Il rumore, le persone ovunque guardasse, le sbronze, la tentazione di alcol proibito e, a giudicare dall’odore nell’aria, anche di altre sostanze.
Nonostante il vantaggio offerto dagli anni di esperienza, tutto ciò che Zoe poteva fare era concentrarsi sull’analisi dei volti di quelli che scappavano attorno a lei. Confrontò ciascuno di loro con il ragazzo in fotografia, ma nonostante l’abbondanza di corrispondenze parziali, nessuno era il vero Jensen Jones. Si sentiva come uno scoglio nel bel mezzo di un fiume, con la corrente che la lambiva. C’erano un mucchio di cose interessanti che catturavano il suo sguardo, angoli e figure e segni, ma passavano così rapidamente che era a malapena in grado di registrarle prima che sparissero.
Shelley ricomparve dalla terza stanza, scuotendo la testa. Zoe spostò lo sguardo verso le scale, appena in tempo per vedere che qualcuno si stava dirigendo a tutta velocità verso di loro. Una giovane donna che indossava una collana di dodici tappi di bottiglia legati insieme attorno al collo, che tintinnavano l’uno contro l’altro mentre correva …
“Lì!” gridò Shelley.
Zoe distolse troppo tardi la sua attenzione dalla ragazza, riuscendo soltanto a scorgere un’altra forma indistinta passarle accanto. Dal modo di gesticolare di Shelley,