Javier Salazar Calle

Ndura. Figlio Della Giungla


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al corridoio sopra una signora. Mi alzai come potei e tornai al mio posto, cercando di non cadere di nuovo. Urla di panico echeggiavano ovunque. Lo stupore era totale.

      “Fuoco, fuoco, hanno colpito l'ala!” urlò qualcuno dalla parte opposta del corridoio dell'aereo.

      “Sulla destra!” sottolineò un altro passeggero.

      All'inizio non sapevo cosa potesse significare, ma quando guardai attraverso la finestra da quel lato potei vedere un fumo concentrato che faceva sembrare che fosse notte, una notte tragica. L'aereo faceva movimenti sempre più bruschi. Alcune persone iniziarono a urlare. Dagli altoparlanti risuonò la voce nervosa e poco comprensibile del pilota, dicendoci che i guerriglieri del Congo, che stavamo sorvolando, ci avevano colpito con un missile e che avremmo fatto un atterraggio di emergenza. Una donna ebbe un attacco di isteria e dovettero farla sedere e tenerla ferma tra due assistenti di volo e un uomo che si offrì di aiutare. Tutti e tre ci sedemmo rapidamente, sistemammo le cinture e ci mettemmo nella posizione che la hostess ci aveva indicato quando eravamo saliti sull'aereo, con la testa tra le ginocchia, guardando il poco rassicurante pavimento di metallo. Eravamo terrorizzati. Mentre mi trovavo in quella posizione scomoda, mi ricordai che al telegiornale avevano parlato qualche volta di questi ribelli, che riuscivano a finanziarsi perché controllavano alcune delle miniere di diamanti del paese o del prezioso coltan, un minerale che contiene un metallo indispensabile per la fabbricazione delle carte dei cellulari, microchip o componenti di centrali nucleari. Era qualcosa come una sanguinosa guerra civile, in cui tutti i paesi circostanti avevano interessi economici e militari, che durava da più di vent'anni e che sembrava non avere fine.

      Le scosse erano così forti che mi spingevano in avanti ancora e ancora, con così tanto slancio che la cintura di sicurezza mi stringeva lo stomaco togliendomi il respiro e colpivo con la testa il sedile di fronte. Notai come il muso dell'aereo puntava verso il suolo e iniziava una vertiginosa discesa. Il rumore era infernale, come migliaia di motori funzionanti a piena potenza, contemporaneamente. Poco prima di colpire il suolo, il pilota fece un ultimo annuncio attraverso l’altoparlante, avrebbe tentato un atterraggio di emergenza in una radura che aveva individuato. L'ultima cosa che pensai è che saremmo morti tutti nell'incidente. Poi tutto fu confusione, forti suoni, colpi, oscurità…

      Quando recuperai conoscenza avevo un fortissimo mal di testa. Mi portai una mano alla fronte e notai che sanguinavo un po’. Avevo anche lividi e graffi su tutto il corpo, soprattutto un grosso graffio con la pelle molto rossa dove aveva stretto la cintura. Ci passai sopra le dita e sentii un forte bruciore che mi fece serrare i denti con forza. Guardai i miei amici. Juan sembrava scioccato, emetteva una specie di grugniti di lamentela e si muoveva un poco; Alex…, Alex non si muoveva affatto, la sua faccia, sempre allegra e vitale prima, era completamente pallida, il gesto rigido, il sangue gocciolava abbondantemente dalla nuca. Lo chiamai disperatamente, ancora e ancora. Gli toccai il viso, era molto rigido, lo presi tra le mie mani e lo scossi dolcemente, chiamandolo, implorandolo. Alex era morto, morto. Quella parola risuonò ripetutamente nella mia testa, come se fosse il suo stesso eco. Morto.

      Disperato, sopraffatto per la situazione, cercavo di reagire. Nella mia testa risuonava un bum-bum-bum, probabilmente per il colpo. Un momento! Non era la mia testa, in lontananza sentivo il suono di alcuni tamburi in una melodia ripetitiva. Sembrava che qualcuno stesse comunicando in lontananza.

      “Merda!” pensai.

      Mi alzai barcollando. Mi venne in mente un pensiero. Se eravamo stati abbattuti, i guerriglieri sarebbero venuti lì e ci avrebbero presi come prigionieri e avrebbero persino potuto ucciderci. Dovevamo andarcene immediatamente. La mia prima reazione fu di avvisare Alex, ma quando girai la testa e lo vidi di nuovo, fui nuovamente consapevole della sua morte. Rimasi fermo per alcuni secondi finché non riuscii a reagire di nuovo. Mi avvicinai a Juan, che era rimasto al suo posto e si era agitato un paio di volte, come qualcuno che dorme e sta avendo un incubo.

      “Juan,” balbettai, “dobbiamo andarcene da qui.”

      “E Alex?” borbottò senza aprire gli occhi.

      “Alex…, Alex è morto Juan” gli risposi cercando di non crollare. “Dai, Alex è morto e lo saremo anche noi se non ce ne andiamo. È morto.”

      Inciampando, cercai il mio zaino nel caos finché non lo trovai. Lo raccolsi e mi diressi verso la parte posteriore dell'aereo. In quella parte un lato stava bruciando e faceva molto caldo. L'intero aereo era pieno di persone sparse nelle posizioni più insolite, alcuni feriti, altri che cercavano di reagire, altri morti. Da tutti i lati si potevano udire grida, lamenti, mormorii. Arrivai alla zona della cucina e misi tutto quello che trovai nel mio zaino: lattine di soda, panini, scatole di cose non identificate, una forchetta. Quando fu pieno, tornai da Juan e presi il suo zaino, che era sopra una donna. Ci misi alcune coperte dall'aereo. Poi mi ricordai dell'armadietto dei medicinali e tornai in cucina, stava lì, sul pavimento, aperto e con tutto sparso. Raccolsi meglio che potei ciò che era nelle vicinanze e andai a cercare Juan.

      “Vieni Juan, andiamo via di qui.”

      “Non posso,” sussurrò, “mi fa male tutto.”

      “Dai, Juan, devi alzarti o ci uccideranno tutti. Vado a lasciare gli zaini fuori e torno a prenderti.”

      “Va bene, va bene, ci proverò“ mi rispose, muovendosi un po’ nel sedile.

      Afferrai entrambi gli zaini e uscii fuori barcollando ancora un po’ per lo shock del colpo. Dovetti sforzarmi molto per non fermarmi ad aiutare il resto della gente, ma non sapevo di quanto tempo disponevo e volevo solo vivere. Vivere un giorno in più per vedere un’altra alba. Eravamo sul lato di una radura nel bosco. Apparentemente, il pilota aveva provato ad atterrare in quel luogo approfittando dell’assenza degli alberi, però aveva deviato un po’; aveva perso l’ala sinistra colpendo i grandi alberi. Una grande colonna di fumo si alzava dall’aereo fino al cielo, permettendo a chiunque di vederla per molti chilometri intorno. Mi addentrai un po’ nel bosco e lasciai gli zaini ai piedi di un grande albero. Dopo mi girai con l’intenzione di tornare all’aereo, però in quell’istante un gruppo di uomini neri armati irruppe nella radura dalla parte opposta a quella in cui mi trovavo. Mi chinai rapidamente, nascondendomi dietro a un tronco. Sentii una fitta di dolore allo stomaco. I guerriglieri, alcuni vestiti con tute mimetiche e altri con abiti civili, circondarono l’aereo puntando le armi e gridando senza sosta. Non capivo nulla di quello che dicevano, dalla zona in cui ci trovavamo doveva essere swahili o chissà cos’altro.

      “Nitoka!” gridavano ancora e ancora. “Enyi! Nitoka! Maarusi!1

      Presto alcuni passeggeri perplessi e confusi iniziarono a uscire dall’aereo. Senza tante cerimonie li gettarono e terra e li scrutarono attentamente. Stavano arrivando altri ribelli. Uno dei passeggeri, un uomo che era stato seduto di fronte a noi, si innervosì e si alzò tentando di scappare. I guerriglieri gli spararono più raffiche con le loro mitragliatrici, facendolo cadere, morto, quasi all’istante. Durante quel momento di confusione Juan scese dall’aereo e iniziò a correre nella direzione opposta a quella dove tutti avevano posto la loro attenzione.

      “Basi!2 Basi!” gridarono alcuni ribelli quando lo scoprirono.

      “Nifyetua!3 gridò quello che sembrava il capo quando Juan stava per raggiungere il bordo della radura.

      Poi due di loro lo uccisero alle spalle a colpi di mitragliatrice senza ulteriori indugi. Alcuni proiettili mi passarono vicino sibilando. Abbassai la testa e chiusi gli occhi molto forte, nella stupida convinzione che ciò potesse salvarmi dagli spari. Cadde in ginocchio a soli cinque metri da dove stavo osservando e, prima di crollare completamente, riuscì a vedermi accovacciato e mi dedicò il suo ultimo sorriso.

      “Nitoka, maarusi!” continuavano a gridare verso l’aereo.

      Non dovetti fare molti sforzi per non gridare, visto che ero rimasto completamente muto e paralizzato.