DI CRIMINE (Libro #4)
TRACCE DI SPERANZA (Libro #5)
CAPITOLO UNO
Risuonarono degli spari e Jessie si svegliò di soprassalto.
Mezza addormentata, rotolò giù dal letto, afferrò la pistola dal suo comodino e corse verso la porta della camera da letto. Sembrava che gli spari arrivassero dal salotto. Guardò l’orologio: 1:08.
Mise da parte il pensiero di come qualcuno avesse potuto fare irruzione nel suo appartamento, eludendo tutte le ferree misure di sicurezza, e si concentrò sul compito che aveva per mano. C’era una minaccia dall’altra parte della porta. Non era in pericolo solo lei, ma anche Hannah, che dormiva nella stanza degli ospiti dal lato opposto del salotto.
Jessie fece un lungo, lento e profondo respiro prima di aprire la porta e sbirciare fuori. Vide un tenue bagliore nella stanza, prima che una seconda raffica di spari non la costringesse a ripararsi dietro alla parete. L’aggressore l’aveva vista? Si stava preparando a strisciare nel salotto, quando sentì una voce.
“Sei circondato, Johnny. Vieni fuori con le mani in alto,” ordinò una severa voce maschile.
Improvvisamente si udì una musica angosciante.
“Non mi ammazzerai mai!” gridò qualcuno con una netta parlata da gangster.
Jessie si permise di respirare normalmente per la prima volta in trenta secondi. Abbassando la pistola, si alzò in piedi ed entrò in salotto, dove vide che la televisione era accesa e sintonizzata su un qualche film giallo in bianco e nero.
Prese il telecomando dal tavolino e spense il televisore. Il cuore le stava ancora battendo forte mentre attraversava il salotto, spostando vestiti, scarpe e riviste da terra, arrivando infine alla porta aperta della camera di Hannah.
Infilò dentro la testa, dove vide la sorellastra diciassettenne, Hannah Dorsey, rannicchiata sul letto, addormentata. La ragazza aveva calciato via le coperte e si teneva abbracciata, tremando leggermente.
Jessie si avvicinò in punta di piedi, prese il piumone e glielo posò delicatamente sopra. La ragazza stava bofonchiando qualcosa di incomprensibile. La profiler criminale rimase in piedi accanto a lei, cercando di cogliere qualche parola. Ma dopo pochi secondi decise che non ci sarebbe riuscita e si arrese.
Tornò verso la porta, sempre in punta di piedi, si diede un’ultima occhiata alle spalle e poi chiuse la camera. Nonostante la implorasse di non farlo, questa era la terza volta nel corso dell’ultima settimana che Hannah lasciava la televisione accesa prima di andare a letto. Per fortuna era la prima volta che Jessie veniva risvegliata dal rumore di spari.
In parte avrebbe voluto scuotere la ragazza e svegliarla, trascinandola in salotto perché spegnesse lei la TV. Ma da quanto aveva appreso dalla newsletter sul ruolo dei genitori a cui si era recentemente iscritta, gli adolescenti avevano bisogno di un sacco di sonno in più per consentire a mente e corpo di crescere. Inoltre, se avesse interrotto il sonno di Hannah per rimproverarla, il giorno dopo sarebbe stata lei a pagarne le conseguenze, perché si sarebbe trovata contro una maggiore scontrosità.
Mentre attraversava il salotto per tornare in camera sua, Jessie si chiese se mai da qualche parte quella newsletter parlasse del bisogno di sonno extra, di tanto in tanto, anche per le professioniste quasi trentenni. Stava sorridendo sotto ai baffi, quando inciampò in una scarpa che Hannah aveva lasciato in mezzo alla stanza. Cadde sul pavimento, sbattendo con il ginocchio contro il tavolato di legno.
Si sforzò di trattenere le parolacce che avrebbe voluto gridare. Si limitò invece a sbuffare silenziosamente mentre si rimetteva in piedi e tornava zoppicante verso il suo letto. Con il ginocchio dolorante, il cuore ancora agitato e i pensieri che le vorticavano nella testa, si rassegnò a un’altra notte insonne, cortesia offertale dall’adolescente che aveva accettato di ospitare a casa sua.
Mi sa che dormivo meglio quando avevo un serial killer che mi dava la caccia.
Il suo tetro umorismo la fece ridere, ma non le fece certo prendere sonno.
“Non sono stata io,” disse Hannah con rabbia.
Jessie sedeva di fronte a lei al tavolo della colazione, stupefatta. Non poteva credere che la ragazza lo stesse negando.
“Hannah, qui vivono solo due persone. Io sono andata a letto prima di te. Quando ti ho detto buonanotte, stavi guardando la TV. Quando mi sono svegliata nel cuore della notte, era accesa. Non è necessario lavorare per il Dipartimento di Polizia di Los Angeles per sapere chi l’ha dimenticata accesa.”
Hannah la guardò torva in volto, gli occhi verdi carichi di sicurezza e determinazione.
“Jessie, non voglio mancare di rispetto. Ma hai ammesso di fare fatica a dormire ultimamente. E alla tua età la memoria può cominciare a fare degli scherzi. Non può darsi magari che ti stia dimenticando qualcosa che tu hai effettivamente fatto, e ora me ne dai la colpa perché ti aggrappi allo stereotipo dell’adolescente pigra e smemorata?”
Jessie la fissò, ammutolita dalla sfrontatezza di Hannah. Era una mossa sorprendente, mentire su qualcosa di così ovvio, per nessun ragionevole motivo.
“Sai che di lavoro do la caccia ai serial killer, giusto?” le ricordò. “Non sono esattamente suscettibile a farmi dare della pazza da te.”
Hannah diede l’ultimo morso al suo toast e si alzò in piedi, i capelli biondo sabbia che le ricadevano sul viso mentre si rizzava in tutta la sua allampanata altezza di un metro e ottanta, solo pochi centimetri più bassa di Jessie.
“Non dobbiamo andare all’appuntamento con quella terapeuta questa mattina?” le chiese, ignorando del tutto il suo commento. “Pensavo fosse alle nove. Sono le otto e trentadue adesso.”
Andò verso la sua camera per finire di vestirsi, lasciando il piatto e la tazza vuoti sul tavolo. Jessie lottò contro l’impulso di richiamarla indietro e dirle di mettere quella roba nella lavastoviglie.
Si ricordò dei limiti personali che aveva stabilito quando Hannah si era trasferita a vivere da lei due mesi prima. Lei non era, e non avrebbe cercato di essere, un genitore della ragazza. Il suo lavoro era di fornire un ambiente sicuro per la sorellastra che non aveva mai conosciuto prima, in modo che si potesse riprendere dopo una serie di traumatici eventi. Il suo lavoro era di aiutare Hannah e reintegrarla in un mondo che sembrava essere fitto di pericoli. Il suo lavoro era di fungere da fonte di supporto e sicurezza. Jessie sapeva tutto questo, istintivamente e intellettivamente, eppure non poteva fare a meno di chiedersi perché diamine quella ragazzina non potesse mettere via un dannato piatto.
Mentre puliva e riordinava, si disse per la millesima volta che era tutto normale, che Hannah si stava comportando in modo da poter affermare il controllo sulla propria vita, cosa che ultimamente le era mancata. Doveva convincersi che non era niente di personale e che non sarebbe durato per sempre.
Continuò a ripetersi tutte queste cose. Ma dentro di sé non era sicura di credere a nessuna di esse. C’era una parte di lei che temeva che Hannah avesse dentro di sé una parte più oscura. E aveva paura che fosse irreversibile.
CAPITOLO DUE
Jessie stava diventando ansiosa.
Sapeva che la seduta di Hannah con la dottoressa Lemmon sarebbe finita da un momento all’altro. La ragazza sarebbe uscita dall’ufficio piangendo come era successo dopo l’ultimo incontro? O a muso duro come dopo i primi due?
Se qualcuno poteva avvicinarsi ad Hannah, Jessie doveva credere che fosse la dottoressa Janice Lemmon. Nonostante il suo aspetto senza pretese, con quella donna non si poteva scherzare. La sua struttura minuta, i capelli biondi permanentati e gli occhiali spessi facevano assomigliare la terapeuta comportamentale sessantenne più a una nonna che a uno dei più stimati esperti di comportamenti aberranti nella West Coast. Ma sotto quell’aspetto ordinario si trovava una donna così fortemente rispettata da far ancora di tanto in tanto da consulente per l’LAPD, l’FBI e altre organizzazioni di cui non parlava mai. Tra le altre cose, era anche la terapeuta di Jessie.
All’inizio Jessie si era preoccupata