fosse rimasta in silenzio per ore, indipendentemente da ciò che Jessie aveva fatto per tentare di farla parlare. Pensò alla volta che aveva portato Hannah in palestra e a come la sua sorellastra aveva iniziato a prendere a pugni il pesante sacco senza indossare guanti, colpendolo fino a trovarsi con le mani scorticate e sanguinanti.
Tutti quei comportamenti sembravano corrispondere alla descrizione della dottoressa Lemmon. Ma si potevano anche facilmente interpretare come le azioni di una giovane donna che cerca di elaborare il suo dolore interiore. Niente di tutto questo significava che Hannah fosse una futura sociopatica. Jessie non voleva neanche avvicinarsi a un’etichetta del genere, neppure con la dottoressa Lemmon.
“No,” mentì.
La terapeuta la guardò, ovviamente poco convinta. Ma non insistette, passando a un’altra priorità.
“Come va la scuola?” le chiese.
“Ha iniziato la settimana scorsa. L’ho inserita nella scuola superiore terapeutica che lei mi ha consigliato.”
“Sì, io e lei ne abbiamo parlato brevemente,” confermò la dottoressa. “Non sembrava particolarmente colpita. È anche la tua sensazione?”
“Penso che il modo in cui ha posto la cosa sia ‘per quanto tempo devo frequentare questi drogati e aspiranti suicidi prima di poter tornare in una scuola vera?”
La Lemmon annuì, chiaramente non sorpresa.
“Caspico,” disse. “Con me è stata un po’ meno esplicita. Capisco la sua frustrazione. Ma penso che sia necessario tenerla in un ambiente sicuro e fortemente controllato almeno per un mese, prima di considerare il passaggio a una scuola tradizionale.”
“Questo lo capisco. Ma so che è frustrata. Doveva diplomarsi quest’anno. Ma con tutto il tempo che ha perso, anche in una scuola tradizionale, dovrà frequentare i corsi estivi. Non è che impazzisca di gioia per essere finita con, come li chiama lei, ‘i bruciati al cervello e i cretini’.”
“Un passo alla volta,” disse la dottoressa Lemmon, per niente turbata. “Andiamo avanti. Tu come stai?”
Jessie rise nonostante tutto. Da dove cominciare? Prima che potesse parlare, fu la dottoressa Lemmon a farlo.
“Ovviamente non abbiamo tempo per una seduta completa in questo momento. Ma come te la stai cavando? Sei improvvisamente responsabile di un minore, hai iniziato una relazione con un collega, il tuo lavoro ti richiede di entrare nelle teste di brutali assassini, e stai gestendo il crollo emotivo di aver messo fine alle vite di due serial killer, uno dei quali era tuo padre. Mi pare ci sia abbastanza materiale per giocare.”
Jessie fece un sorriso forzato.
“Detta così, non sembra poi chissà che roba.”
La dottoressa Lemmon non sorrise.
“Dico sul serio, Jessie. Devi restare cosciente della tua salute mentale. Questo non è un periodo pericoloso solo per Hannah. Il rischio che anche tu abbia una regressione è significativo. Non fare l’eroina al riguardo.”
Jessie fece sparire il sorriso, ma mantenne le labbra rigide.
“Sono consapevole dei rischi, dottoressa. E sto facendo del mio meglio per prendermi cura di me. Ma non è che possa prendermi una giornata per andare alla spa. E se smetto di muovermi, verrò investita.”
“Non sono sicura che sia vero, Jessie,” disse la Lemmon con voce sommessa. “A volte, se ci si ferma, il mondo fa marcia indietro e tu puoi rimontare in sella. Sei una persona di valore, ma non essere arrogante. Non sei così indispensabile in questo mondo da non poter cliccare il tasto pausa di tanto in tanto.”
Jessie annuì, aggressive e sarcastica.
“Ne ho preso nota,” disse, fingendo di scrivere un appunto. “Non essere arrogante. Non indispensabile.”
La dottoressa Lemmon corrucciò le labbra, apparendo quasi irritata. Jessie cercò di andare oltre.
“Come sta Garland?” chiese con tono beffardo.
“Scusa?” chiese la Lemmon.
“Sa, Garland Moses, consulente profiler per il Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Mi ha aiutato a trovare e salvare Hannah, più vecchio, aspetto trasandato in quel modo un po’ affascinante da ‘chi se ne frega’.”
“Conosco il signor Moses, Jessie. Non sono sicura del perché tu mi stia chiedendo di lui.”
“Per nessun motivo,” le rispose, sentendo che era andata a segno. “È solo che ha accennato a lei qualche tempo fa, e qualcosa nel suo tono mi ha dato l’impressione che foste pappa e ciccia. Quindi mi stavo chiedendo come se la stesse passando.”
“Penso che con questo il nostro tempo oggi sia finito,” disse bruscamente la dottoressa Lemmon.
“Wow,” disse Jessie, questa volta sorridendo sul serio. “Ha chiuso davvero velocemente, dottoressa.”
La dottoressa Lemmon si alzò in piedi e le fece segno di andare verso l’uscita. Jessie decise di mollare. Quando ebbero raggiunto la porta, si girò verso la terapeuta e le pose la domanda che la stava tormentando da qualche minuto.
“Sul serio, dottoressa, se Hannah sta seguendo la strada alla fine della quale farà fatica a provare empatia per le altre persone, ci saranno modi di farla tornare indietro?”
La dottoressa Lemmon esitò e la guardò fissa negli occhi.
“Jessie, ho passato trentacinque anni della mia vita a cercare di rispondere a domande come questa. La migliore risposta che posso darti è: lo spero.”
CAPITOLO TRE
Lizzie Polacnyk arrivò a casa davvero tardi.
Si era aspettata di tornare dalla sua sessione di studio alla California State University a Northridge entro le 7 di sera. Ma avevano un esame enorme di Psicologia 101 domani e tutti si erano fatti domande senza sosta. Quando avevano deciso che la serata era finita, si erano fatte ormai le nove passate.
Quando aprì la porta di casa sua, erano quasi le 21:45. Cercò di mantenere il silenzio, ricordando che Michaela aveva fatto chiusura alle 6 di mattina gli ultimi due giorni, e quindi ormai era sicuramente addormentata.
Percorse il corridoio in punta di piedi fino alla sua stanza e fu sorpresa di vedere una luce soffusa che filtrava da sotto la porta della camera della compagna d’appartamento. Non era da lei restare sveglia fino a tardi se doveva alzarsi prima delle cinque di mattina. Si chiese se l’amica di vecchia data e recente coinquilina fosse stata semplicemente troppo stanca e si fosse addormentata con la luce accesa. Decise di sbirciare dentro alla camera e spegnerla se necessario.
Quando spinse la porta leggermente, vide Michaela stesa supina, senza le coperte addosso. Il cuscino le copriva in parte la faccia. C’era solo l’abat-jour accesa, quindi era difficile esserne sicuri, ma sembrava che non si fosse neanche levata i vestiti della giornata: una divisa da cheerleader.
Lizzie stava per chiudere la porta quando notò una cosa strana. La gonna era tirata in basso, sulle cosce di Michaela, lasciando scoperto il pube. Questo sembrava piuttosto strano, per quanto fosse stata stanca.
Lizzie si chiese se tirare un lenzuolo sopra all’amica per coprirla. Considerato quello che Michaela faceva di lavoro, sembrava un atto di forzata modestia. E poi non era che nessuno sarebbe potuto entrare nella stanza. Però Lizzie sentì la ragazza cattolica dentro di sé che si dimenava e sapeva che l’avrebbe tormentata tutta la notte se non avesse fatto qualcosa.
Quindi spinse delicatamente la porta ed entrò nella stanza, camminando silenziosamente fino al bordo del letto. Era a metà strada quando si fermò di colpo. Ora, senza schermi davanti, poteva vedere i buchi sul petto e sullo stomaco di Michaela.
Una densa pozza si era formata sotto al suo torso, con il sangue che era uscito dalla divisa lacerata, e stava leggermente imbevendo le lenzuola del letto. Gli occhi dell’amica erano strizzati, come se li avesse tenuti chiusi con forza per proteggersi da ciò che stava accadendo.
Lizzie rimase lì per diversi secondi, insicura su come reagire. Sentiva