doveva andare a un'organizzazione marittima. Aveva dei piani grandiosi per affidarla a un gruppo locale di preservazione marittima e trasformarla in un museo sui naufragi.”
“Sembra proprio un'idea da June,” commentò Marie.
“Beh, sì, era così fino a due settimane fa. June mi ha chiamato in ufficio e mi ha chiesto di fare alcune modifiche al testamento. Una sola riga, a dire il vero. Quella in cui lascia a lei la proprietà della casa.”
“Lei è… lei è sicuro?”
Carey sorrise. “Sì. È tutto qui nel testamento, nero su bianco. June le ha lasciato il suo maniero in eredità, Marie.”
Marie iniziò a ridacchiare, ma rapidamente la risata si tramutò in un pianto silenzioso. Le implicazioni infinite di questa cosa iniziarono ad affollarle la testa, eppure non riusciva a trovare un senso a nessuna di esse. Era come un grosso cumulo di foglie secche appena rastrellate, che aspettava solo che lei ci saltasse dentro.
“Dov'è l'inghippo?” chiese.
“Beh, la casa è infestata. Non lo sa?”
Marie lo fissò con la bocca spalancata.
Carey rise della sua battuta, scuotendo la testa. “Sto solo scherzando. Ma sono sicuro che lei è al corrente delle dicerie.”
“Le ho sentite tutte, mi sa.”
“Ad ogni modo, no… non c'è nessun inghippo. È sua. Ci sono un po' di carte da firmare e depositare, ma è solo la prassi.” Si fermò un momento e aggiunse: “Tutto bene?”
“Sì,” disse Marie, fissando i documenti.
Voleva piangere. Voleva urlare. Voleva esplodere in una danza di gioia lì stesso, nel parcheggio. Ma probabilmente non sarebbe stato un comportamento appropriato a una veglia funebre.
Non può essere vero, non mi sta capitando davvero, pensò.
“Sarebbe strano se le chiedessi di darmi un pizzicotto?” chiese Marie.
“Un po', suppongo. Ma posso farlo se vuole.”
“Non fa niente. Quindi… posso andare alla casa e… dare un'occhiata?”
“Certo. Ma, prima di tutto, c'è anche questa…”
Carey frugò nuovamente nella valigetta e tirò fuori una busta. C'era scritto il nome di Marie, chiaro e tondo, proprio al centro. Marie la aprì lentamente, le mani tremanti.
La busta conteneva un solo foglio di carta, piegato in tre. Quando Marie lo aprì, scoprì che si trattava di una breve lettera manoscritta. Nel vedere la grafia che pendeva nettamente verso sinistra, si immaginò facilmente June mentre la scriveva. La lettera riportava:
Marie,
Se stai leggendo, vuol dire che sono morta. Mi dispiace. Mi spiace anche di doverti mollare la baracca. Ma ho pensato che starebbe meglio tra le tue mani che in quelle di un mucchio di politicanti e presuntuosi appassionati di storia. Abbi cura del posto, e stai attenta a quei gatti mutanti radioattivi! Ce ne sono molti in primavera. Oh, dimenticavo, come se già la casa non fosse in sé e per sé una sorpresa… c'è anche un'altra sorpresa che ti aspetta e che apprezzerai!
Con tanto amore,
Un'altra sorpresa? Marie non sapeva se il suo cuore poteva reggere altre sorprese. Già faceva fatica ad accettare che la casa per la quale aveva avuto un tempo una piccola ossessione ora era sua. Se le sorprese continuavano ad accumularsi, il suo cuore avrebbe potuto esplodere, pensò.
Ah, forse è a questo che somiglia, essere felici da adulti.
“Quindi, posso andare a dare un'occhiata?” chiese. Ancora una volta, si aspettava uno scherzetto dell'ultimo minuto. Sarebbe stato appropriato, in qualche modo, data la personalità di June.
“Certo,” la rassicurò Carey. Infilò nuovamente la mano nella valigetta e ne trasse un'altra busta, questa volta molto più piccola della prima, e la consegnò a Marie. Quando Marie la aprì, vi trovò due chiavi.
Marie se le fece scivolare in mano. Tintinnarono insieme melodiosamente. Le fissò per un attimo, iniziando a realizzare cosa stava davvero succedendo.
“È tutto okay,” disse Carey, forse comprendendo finalmente la sua confusione. “Può andare. Vada pure a visitare la sua nuova proprietà.”
CAPITOLO SEI
Quando venti minuti dopo guidò l'auto sul tortuoso vialetto di Crabapple Road, Marie fu sopraffatta dalla sensazione di entrare in una proprietà privata. Stava guidando verso la casa con intenzione, adesso, e non solo con desiderio ed eccitazione.
Ora sì che pensi come una ragazza grande.
Quasi scoppiò a ridere quando le venne in mente quella frase. Gliela diceva suo padre ogni volta che lei iniziava a interrogarlo su qualcosa, o metteva in dubbio qualcosa che aveva imparato a scuola. Marie era stata il tipo di scolaretta che, in prima elementare, aveva osservato che forse Cristoforo Colombo non era poi quel grande eroe che si diceva, ma solo un bullo che era andato a prendersi roba che non era sua.
Era un tratto di personalità che l'aveva accompagnata per il resto della vita, ma erano molti anni che non pensava più a quella frase.
Quando parcheggiò davanti alla casa, rimase in piedi accanto all'auto per un momento, a osservarla. Le persiane grigie davano un'impressione di calma e relax. Il vecchio dondolo nel portico, che avrebbe dovuto essere spedito in pensione già da tempo, sembrava più solido che mai. Piccole aiuole bordeggiavano il portico, piene di lillà, bouganville e belle di giorno appassite. Stranamente, i fiori non sembravano affatto vivacizzare la facciata della casa, ma contribuivano a quella calma calorosa e accogliente che emanavano i toni grigi delle persiane e del portone.
Marie sorrise. Era appropriato che zia June possedesse una casa che generava opinioni contrastanti. Per alcuni poteva essere invitante e calorosa, per altri invece inquietante e un po' sinistra.
Marie fece un respiro profondo e iniziò ad avanzare. Non aveva paura; nonostante le dicerie, non avrebbe mai potuto provare nulla di anche solo somigliante alla paura, quando veniva in questa casa. La zia June aveva vissuto qui ed era qui che erano racchiusi così tanti cari ricordi d'infanzia. Quindi non aveva paura, si sentiva solo un po' tesa.
Sorrise, assaporando il groviglio di emozioni e la gita lungo il viale dei ricordi che stava ormai per riportarla al punto di partenza, chiudendo così il cerchio. Fece un passo sul portico e, adoperando una delle chiavi che Carey le aveva dato, aprì la porta. Si aprì facilmente, come se la stesse aspettando da sempre.
Nel guardare l'interno della casa per la prima volta in vent'anni, Marie si chiese se avesse sempre avuto un'aria così sinistra. Inquietante era una parola un po' troppo forte, ma non ci andava troppo lontano. Le fece pensare più a Ghostbusters che a Scooby Doo.
June aveva davvero calcato la mano sull'aspetto dark. I pavimenti in parquet erano piuttosto scuri, coperti in larga parte da splendidi tappeti dai motivi grigi e neri. Il lampadario che Marie si ricordava dall'infanzia pendeva dall'alto soffitto dell'ingresso. Anche quello era bellissimo ma aveva un fascino un po' spettrale. Era il tipo di luogo in cui immaginava che Edgar Allan Poe potesse essersi rintanato a scrivere di cuori murati ancora pulsanti e corvi che tormentavano persone. Ma solo se Poe fosse stato, in fondo, un buontempone. Se mai ci fossero stati spettri a infestare questo posto, di certo non erano del tipo da far tintinnare spaventosamente catene, ma più probabilmente sarebbero stati dei giocolieri oppure avrebbero soffiato costantemente in una di quelle trombette con l'estremità fatta di carta che si allunga.
Marie avanzò verso il fondo dell'ingresso e guardò alla sua sinistra. Sapeva cosa la aspettava lì: il salotto in cui June e sua madre avevano passato così tempo sedute insieme. Marie stessa aveva passato un sacco di tempo lì, a riempire album da colorare e a fingere di leggere vecchi libri di Nancy Drew mentre ascoltava June e sua madre scambiarsi pettegolezzi sui vicini.
Entrò in salotto. Era ordinato e buio. L'unica luce che illuminava la stanza filtrava dallo spazio lasciato da una