Gabriele D'Annunzio

Più che l'amore: Tragedia moderna


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       Gabriele D'Annunzio

      Più che l'amore: Tragedia moderna

      Preceduta da un discorso e accresciuta d'un preludio d'un intermezzo e d'un esodio

      Pubblicato da Good Press, 2020

       [email protected]

      EAN 4064066068554

       DELL'ULTIMA TERRA LONTANA E DELLA PIETRA BIANCA DI PALLADE.

       PRELUDIO.

       MOTIVI PER UN PRELUDIO SINFONICO.

       IL PRIMO EPISODIO.

       INTERMEZZO.

       MOTIVI PER UN INTERMEZZO SINFONICO.

       IL SECONDO EPISODIO.

       ESODIO.

       MOTIVI PER UN ESODIO SINFONICO.

      PRECEDUTA DA UN DISCORSO E ACCRESCIUTA

       D'UN PRELUDIO D'UN INTERMEZZO E D'UN ESODIO.

      Posso, come te, cantare

      nei supplizii.

      Maria Vesta.

      MILANO

       Fratelli Treves, Editori

       1907.

       —

       Quinto migliaio.

      Tip. Treves.

       Indice

      A Vincenzo Morello.

      Questo libro non è offerto al difensore del colpevole Ulisside, allo scrittore che primo di sopra la vil canizza gazzettante levò una parola d'uomo pensoso e animoso. Questo poema di libertà, dove la più bella speranza canta la più alta melodìa, è offerto al buon compagno che nella notte del mio publico vituperio, quando ancóra s'udiva dietro a noi la via del Teatro sonare maravigliosamente di urla implacabili, partecipò della mia allegrezza e rise del mio riso. Qual più virile testimonianza di fede avrebbe egli potuto dare in quel punto alla mia forza paziente? Eccogli dunque il segno del mio grato animo, nel suo nome.

      Eravamo, te ne ricordi?, presso quelle Terme di Diocleziano che, inalzate al culto del corpo ignudo e dell'acqua salutifera, ora chiudono entro le ruine di sanguigno mattone la nudità di un popolo marmoreo. Come il vento di quel clamore non giungeva certo a toccare alcuna di quelle belle statue erette nel silenzio notturno, così non valeva a turbare in me stesso alcun lineamento dell'opera solitaria che, espressa dalla mia più profonda ansietà, omai non apparteneva se non all'immoto suo fato. E, come a quella muraglia imperiale aderiva per me la memoria dei Cristiani morituri che la costrussero in dolore e in aspettazione, così all'ardua mia gioia era commisto un affetto evangelico: una pia reverenza e riconoscenza verso la moltitudine urlante e calpestante; perché, in verità, quello strepitoso impeto di odio o forse di amor cieco — verso il poeta che da anni si sforza di rivendicare nel teatro latino le potenze del Ritmo e di restituire su l'altura scenica il dominio della Vita ideale — era una specie di spettacolo dionisiaco che sostituiva nella nostra imaginazione la presenza delle forze elementari già significata dal coro ebro dei satiri che accompagnò il passo della Tragedia primitiva.

      «È una bella sera» dice l'Ulisside allorché, avendo preso commiato dal fratello generoso e dalla vita terribile con l'ultima strofe del suo fùnebre canto, si accosta alla finestra aperta ed alza al cielo primaverile di Roma gli occhi che fra poco saranno spenti. Si racconta che, come l'attore ebbe pronunziata quella parola tranquilla, un potentissimo scroscio di risa rintronò tutto il teatro e fece lungamente sussultare il ventre innumerevole.

      Ora la notte d'ottobre non appariva men bella della sera di marzo, ma indulgente verso un tenue riso silenzioso che ben sapeva d'esser destinato a prevalere. E io pensavo che di là dalla muraglia, nel chiostro certosino, sotto le costellazioni si taceva il michelangiolesco cipresso onde Virginio Vesta avrebbe dovuto spiccare il ramo per la corona da deporre «su le ginocchia di pietra». Ed ecco, la tua ironia si soffermò per dire: «Si sveglia l'Erinni».

      Era l'antica, la ludovisia, la bellissima, quella che là entro dormiva come le sue sorelle eschilèe nel tempio di Delfo: non la nera cagna infernale, la persecutrice sanguinaria, dal soffio romoroso, dagli occhi pregni d'atra bile, dalla convulsa bocca schiumante; bensì, mutata già in Eumenide, la grande vergine severa, simile a una Melpomene senza la maschera, coronata non dell'edera ma d'una divina tristezza.

      Non diedi io quel puro viso a ciascuna delle «nuove Erinni» invocate dal delirio dell'uccisore sul limite santo che separa la notte dal giorno? O figlie dell'Aurora e dell'Uomo, siate pietose alla semplicità dei dottori che vi confusero con i custodi baffuti della Sicurezza publica!

      Ci piacque d'imaginar rinnovato per l'Ulisside il giudizio di Oreste, il dibàttito presieduto da Pallade nell'Areopago venerando dinanzi al popolo convocato dalla tromba tirrenica. «Sarà il colpevole assolto dal bianco lapillo di Atena?» L'Occhichiara, alzata nel suo corto chitone dorico dalle pieghe simili alle scanalature della colonna, si degnò di ascoltare l'accusa e la difesa con sopracciglio sereno, come colei che — nata dal Cervello — converte del continuo l'ambiguo evento in specie di puro pensiero. Ma, prima dello scrutinio, ahimè, subitamente si dileguò. E ci accorgemmo ch'ella era stata offesa dall'aspetto e dall'odore di uno fra i tanti miei patroni e clièntoli sopraggiunto; il quale, premendo la casta mano sul cuor purulento, prese a lamentare la mia gloria abbattuta per sempre contro le lastre del Viminale. Tuttavia, per buono stomaco, da quei costanti bevitori d'acqua che noi siamo, potemmo essere a cena.

      Oggi, in questa sottile spiaggia etrusca — mentre è lontanissimo il coro delle bertucce giovinette e dei mammoni decrepiti che m'inibiscono l'immortalità — ho veduto brillare su la sabbia al limite dell'onda il bianco lapillo di Atena e l'ho raccolto religiosamente prostrandomi. Ψῆφος Ἀθηνᾶς: è un ciottoletto, non più grande dell'aliosso polito dal gioco dei fanciulli; e parve, su la collina di Ares, il fondamento augusto della nuova giustizia.

      Hai certo nella memoria il sublime episodio eschilèo. Il supplice, ricoverato nel tempio di Pallade, ha cinto con ambe le braccia l'imagine santa; e ha detto: «Sopito è il sangue su la mia mano, e inaridito. Invoco Atena con bocca pura...». Egli ha già disseparato l'anima sua viva dall'atto estraneo. Come l'Ulisside, egli non è più «l'attributo del suo atto». Purificato dal dio di Delfo, egli abbandona la sua colpa come una veste immonda; recupera nell'innocenza la sua nudità nativa; e le sue ossa sembrano «rivestite d'una nuova sostanza». Non altrimenti, nell'aria del mattino, l'Ulisside sente «la sua vera vita involarsi e fluttuare in alto sopra l'azione». Non sembra che costui invochi la medesima dea? Non è rivolta la sua diritta domanda a Colei «dai pensieri numerosi» che porta sul petto il capo della Gòrgone? «Tu dimmi se un sol movimento debba valere contro tutta una vita libera alzata su due talloni.»

      Le vecchie Erinni schiumanti di furore