Ha tracannato con la bevanda barbarica un filtro di violenza, di crudeltà e di allegrezza. Nel delirio orgiastico della musica egli riconosce e adora il suo nume patetico. Sembra che di lui parli e non del sinfoneta quando dice: «Che m'insegna costui? M'insegna il furore e il turbine». Sembra che raffiguri il suo proprio destino quando soggiunge: «La tempesta solleva tutte le forze dell'anima e le aggira e poi le sbatte e schiaccia contro un muro di granito». Ma in nessun momento la sua comunione col dio «che discioglie» si rivela come quando, nella contrattura del più acre impulso, egli evoca l'imagine del sonno «solvitore d'affanni», la tregua largita da Lieo ai furibondi. «Nulla di meglio che quel sonno selvaggio ch'io dormirò su la sabbia oceanica, dopo l'approdo.» Non somiglia a quello, dormito sul monte sotto i raggi del sole, che il bifolco del Citerone descrive nelle Baccanti di Euripide? Più tardi egli chiederà non la tregua breve ma il nero seppellimento. «Io vorrei già essere laggiù, allo sbocco del fiume, supino sotto il mio tumulo di terra.» Avrà tal riposo dal dio che affranca da ogni giogo e da ogni catena colui che lo ha servito; l'avrà non allo sbocco del fiume, non in un luogo designato, ma nel grembo stesso della sostanza primordiale, nell'unità originaria, a cui egli ritornerà confondendo la gioia del disparire nella gioia del divenire, dopo aver ricevuto «un annunzio di perpetuità», dopo aver sentito «l'aspirazione degli eroi sollevarsi in un cuore sublime come in un vertice del Futuro». E il poeta tragico potrà allora onorarlo con l'epigramma sepolcrale che è la lode di tutti i magnanimi in fare e in patire: «O Terra, riprendi questo corpo; e ricordati che fu potente pe' tuoi futuri travagli».
Io credo aver distintamente udito il ritmo fùnebre di tanto destino e aver misurato con esso il troppo ampio respiro dei miei dialoghi. Questa tragedia è la celebrazione di un'agonia dionisiaca. Le cause generatrici dell'Essere — l'illusione, la volontà, il dolore — vi combattono l'ultimo combattimento sotto i grandi occhi cristallini delle nuove Erinni che per illuminarlo sollevano in alto le faci non con lo squasso della vendetta ma col gesto di Psiche munito della lampada perspicace.
Quando Corrado Brando pronunzia le sue prime parole, egli ha già sopra sé «l'ombra d'un'ala» che non è quella della Vittoria. Secondo la visione di Maria Vesta, egli è «già passato dalla parte della notte». Affascinato dalla linea retta che il domatore di fiumi segna con la riga d'acciaio, egli dice: «Un sì o un no. Questo volevo dalla vita». Sembra che perfino il fantasma della sua volontà sia già dietro di lui e che, nel dialogo dell'amicizia, pur tenendo rivolto il viso verso il fato, egli non faccia se non la commemorazione di ciò che è irrevocabile e la rappresentazione di ciò che non può esser più raggiunto. Il suo sogno, che un tempo aderiva all'atto «come il bagliore a ciò che riluce», ora è come l'ombra che riempie la bocca vacua della maschera intagliata nella chiave dell'arco inaccesso. Lontanissimi sono i pozzi di Aubàcar. E la sua sete egli non la potrà estinguere se non nelle sue proprie vene gonfie.
L'azione fu compiuta; il crimine fu commesso, non dall'Ate abbagliante che accecava anche la mente di Zeus, ma dall'oscurissima Ate che abita nell'interno fango dell'uomo e quivi ha in potere la belva sopita o inferma. Ignobile è «il piccolo fatto senza sangue» troppo dissimile alla mano invitta che l'eseguì, troppo estraneo alla natura leonina. Per giovarsene, converrebbe protrarre i giochi dell'astuzia, preparare la fuga con cautela, tessere frodi, pigliare spedienti, troncare gli indugi. Ma la «scaltrezza animale» s'è dispersa nell'alba; non rimane se non la smania della guerra, la furia del combattere, l'ansia del risalire. Ed ecco «il fervore della libertà, l'esaltazione del coraggio, l'urto degli eventi e degli uomini, tutto sparisce dinanzi alla realtà immediata, all'atto che non può esser distrutto!» Qual nodo tragico mai serrò più strettamente anima anelante? Il rombo spaventoso, che l'uccisore ode sul suo capo, sembra già riempire tutto il dialogo. Dietro le figure dei due uomini si prolungano l'ombra della Pietà e l'ombra del Terrore sul pavimento della stanza tranquilla, ove l'Ignoto nascosto nell'angolo si arma.
Hai nella mente l'Aiace sofoclèo? Quando appare su la scena, anch'egli, il signore dello scudo di sette cuoi, è perduto, coperto d'obbrobrio, disperato di vivere, già dato al Buio. Inespugnabile mole d'orgoglio, anch'egli ha patito l'ingiustizia e lo sfregio. Anche a lui è parso aver compiuto «una grande azione, senza gloria, a benefizio altrui». Il più forte dopo Achille ha veduto aggiudicare, nella contesa delle armi, al pulito parlatore l'asta del monte Pelio e il clipeo scolpito della grande imagine del mondo. Anch'egli ha sempre serrato i denti per tener la lingua in freno, ha lasciato agli altri la millanteria, ha tenuto per sé l'orgoglio; ma ha pur pensato sempre: «Chi è il Capo se non il più forte?», Similmente il battitore di vie ignote ha potuto far sua la parola del Telamonio: «Io confesso ch'io domando grandi guiderdoni». Ma i giudici a colui che «difese mille navi col suo corpo» han tolto l'onore ch'eragli dovuto. Il rancore di Corrado Brando contro il suo rivale scaltro ben potrebbe esprimersi negli stessi modi: «Ciò ch'egli fa, lo fa celatamente, e sempre disarmato».
Or quando il poeta evoca l'eroe dinanzi allo spettatore, la strage ignominiosa delle greggi è già avvenuta. Subitamente invaso dal morbo furiale, il «Figlio dell'aquila», l'Eacide che pargolo ebbe per fasce la fresca pelle del leone nemèo, ha compiuto nella notte il tagliamento delle «placide bestie», s'è coperto di sangue mansueto, simile a pazzo beccaio o a vittimario ubriaco. Ed ecco, rientrato sotto la tenda, ora deve soggiacere al suo destino.
Chi dirà l'infinita tristezza di quel risveglio? I rossi fumi della frenesia notturna si dissolvono, la ragione e la pupilla si rischiarano. Quegli che trascorreva simile a un Titano su le tolde delle navi minacciate dai tizzoni dardànii, quegli medesimo è là stupefatto sul carname vile, con la ruina di tutta la sua forza e di tutta la sua gloria, esposto alle beffe e alle rappresaglie degli Atridi e dell'esercito.
Non altrimenti si sveglia il vincitore di Olda e si ritrova fra i piedi il cadavere del baro, la «cosa corrotta» che il destino gli getta innanzi perché egli stramazzi nel fango e nell'onta. «Una povera spoglia esangue arresterà colui che nella terra lontana, per aprirsi il varco, mise a ferro e a fuoco le tribù!»
Quale spettacolo più patetico del crollo subitaneo d'una vita grande, cagionato dall'atto ridevole e turpe compiuto in un'ora d'incomprensibile smarrimento? Lo stesso avversario del caduto, il protetto di Pallade Odisseo, è stretto dalla pietà; e ripete la sconsolata parola dell'antica mestizia: «Ben vedo che noi tutti viventi non siamo se non simulacri e lieve ombra». Muto sta il Telamonio e immobile in mezzo al mucchio sanguinoso. Un sol pensiero omai gli è confitto nella durissima fronte: il pensiero della morte necessaria. Ed ecco che anche qui il ritmo funebre incomincia, per accompagnare sino alla fine la tragedia. La quale non è se non la rappresentazione di un'agonia leonina e di un seppellimento avversato su la sabbia fulva, al frangente del flutto, cui sovrasta la ruota degli uccelli marini attratti dalla smisurata esca.
Si riscuote il morituro e getta due muggiti di toro. Col terzo grido chiama il figlio: Ιω παῖ παῖ. Il suo dolore invoca il nato dalla sua virtù, la creatura che sopravvive a lui distrutto, la vita che si perpetua e ascende. Lo scopritore di nuove stelle dice nella sua suprema preghiera, pensando al non nato ancóra: «Che la Natura trasmetta in carne il segno della mia più profonda cicatrice!» Il Telamonio lascia all'erede il solo scudo settemplice, l'emblema della sua possa invitta. Egli dice: «O figlio, sii più fortunato del tuo padre ma nel resto a lui simile». L'Ulisside spera che il suo figlio vada più oltre. Egli, percosso a mezza via, scorge prima di chiuder gli occhi «di là dalla mèta l'erede del suo dominio, il monumento vivo della sua vittoria». Entrambi hanno fede di aver generato con grandezza perché vissero con grandezza, perché entrambi ebbero la volontà ostinata di superar sé medesimi, «di non più essere uomini ma qualcosa di meglio». Al padre che l'ammoniva di vincere con l'armi ma sempre col favore del dio, Aiace aveva risposto: «Anche l'uom vile può con gli iddii vincere; io confido d'acquistar la mia gloria senza costoro, o padre». Il vincitore di Olda aveva ospitato il dio nel suo petto, gli aveva dato il palpito del suo proprio cuore; s'era divinamente sollevato sopra il dolore e sopra la morte; aveva detto ai carnefici: «Io sono un dèmone, e voi non potete farmi né soffrire né morire». L'orfano Eurisace regnerà magnanimo l'isola ricca di fati navali e di colombe; avrà dai talassòcrati Ateniesi gli onori divini. Ma qual Moira assisterà la nascita dell'orfano partorito senza ululo nella solitudine da colei che «pari alla stessa vita, si sente capace di tollerare tutti i mali»?
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