Gabriele D'Annunzio

Più che l'amore: Tragedia moderna


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del bottino», una preda barbarica liberata dai vincoli e accolta nel letto del predatore Ellèno; ma la sua attitudine e la sua voce non sono della «schiava subdola e funesta» bensì dell'amante sottomessa e devota che ha posto nel suo dèspoto ogni sua salute e che l'esorta a vivere con una preghiera d'infinita dolcezza. «A te, vivere e vincere; a me, vivere e attendere» dirà anche Maria Vesta, ma con un accento ben più animoso, ma col fremito della più fiera libertà. O matutina apparizione dell'anima feminea nell'opera giovenile di quel poeta che per la bocca dell'invincibile Antigone rivelò primo al mondo la forza delle leggi «non scritte»!

      Né la dolcezza di Tecmessa, né il rude amore dei marinai di Salamina, né il pensiero dei vecchi e del nato possono interrompere la corsa dell'eroe verso la tenebra. «O tenebra, mia luce!» ha detto l'amico del giorno, il combattente che nella mischia intorno al cadavere di Patroclo aveva lanciato la meravigliosa bestemmia contro Zeus spargitore importuno della nera caligine, Ιω σκότος, ὲμον φαος. Luce a lui farà la spada fatale di Ettore, confitta per l'elsa nella sabbia del mare, su la più deserta piaggia. La morte ch'egli invoca nel commiato sublime è quella stessa cui vuol consacrarsi l'Ulisside novello: non la femmina orrida ma il Genio maschio.

      Ὤ Θανατε Θανατε, νῦν μ’ ὲπίσκεψαι μολων.

      Dietro di lui è il macello ignobile, è l'ira degli iddii, è il pianto di Tecmessa, è l'esultazione ingannevole dei socii navali che chiamano Pan «ondivago» alla danza; ed egli è là, contro la larga spada infissa, avvolto da quel gran vento che amano gli sfidatori «pieno di sabbia sollevata e di schiuma in lembi.» Non sembra che anche Corrado Brando abbia udito su quel gran vento il grido selvaggio del coro in tripudio?

      Ἰω ἰω Πὰν, Πὰν,

      ὦ Πὰν Πὰν άλίπλαγκτε....

      O amico, e non ti ricorda Thanatos un'altra consecrazione che inseverisce quel poema nautico ov'è celebrata — con modi che ti piacquero — la nascita della decima Musa Energèia?

      «Bel fanciullo» dissi «a Te solo

      sacrerò l'acciaio polito

      ove miro l'anima mia,

      se mai sarà ch'ella s'incurvi.»

      L'anima ribelle del Telamonio s'incurva, nel tempo medesimo, sotto il giogo degli iddii e verso la punta del ferro. Il peso stesso della sua azione riconosciuta e giudicata lo abbatte al suolo. «In avvenire» dice egli con un'amarezza che mi sembra simile al sarcasmo «in avvenire sapremo che convien cedere ai numi, e impareremo a venerare gli Atridi». Il nome della moderazione ricorre per la prima e per l'ultima volta su le labbra dell'empio che un giorno osò respingere crudamente il soccorso di Pallade stimandosi bastevole a sostener da solo qualunque sforzo ostile.

      Ἡμεῖς δὲ πῶς οὺ γνωσόμεσθα σωφρονεῖν;

      Ma egli si uccide perché «niuno potrebbe vincere Aiace, altri che Aiace».

      Corrado Brando dirà: «Chiunque possegga sé, per essersi conquistato a prezzo di travagli, considera come suo privilegio il diritto di punirsi o di farsi grazia, e non lo concede ad altri». Egli scuote da sé il peso della sua azione, egli scaccia dal suo spirito l'imagine della colpa, si rifiuta di accettare il castigo, di considerarsi omai «come l'attributo del suo atto e null'altro». Gli sembra iniquo che il piccolo fatto senza sangue abbia ragione d'una grande vita. Egli non incurva né il suo corpo né la sua anima, anzi erge a dismisura e l'uno e l'altra come colui che teme d'essere sorpreso da uno sgomento improvviso, da un affievolimento di forze, come colui che teme «di commettere una viltà contro la sua follìa, di disconoscerla, di difformarla, di avvilirla». Prima che contro gli uomini, egli si difende contro il rimorso e contro il pentimento. Il suo istinto di ribellione non soltanto persiste fino all'ultimo, ma si esaspera trasmutandosi in minaccioso delirio. Egli vuol dedicare ancóra qualche sacrifizio umano in un gran rogo alla sua libertà, perché almeno gli schiavi dalla piazza si volgano in su e si ricòrdino. La sua ultima ragione è nelle sue armi cariche. Egli non si ucciderà, ma ucciderà finché non sarà ucciso. E verso la notte di primavera il suo cadavere arderà nell'incendio, in mezzo all'Urbe, tra il Muro del sesto re e il Fòro costrutto dal domatore dei Parti; arderà perché meglio dal fango mortale si sprigioni nel fuoco lo spirito «infaticabilmente vivo» e continui a operare sul mondo, poi che la più fulgida favilla è già entrata «nel germe ancor cieco del nuovo essere».

      Su la salma di Aiace scoppia il conflitto tra il fraterno dolore di Teucro e il basso rancore degli Atridi che tentano gittar la preda cruenta agli uccelli del mare. La magnanimità del Laertiade intercede pel nemico e lo celebra come il più forte degli Achei dopo Achille. L'eroe infortunato sarà sepolto, con tutta l'armatura, dalla pietà del sagittario e di Tecmessa nel promontorio battuto dalle tempeste. Ma colui che non ha potuto scegliere il luogo della sua sepoltura e dormire sotto il tumulo il sonno stesso della terra incognita, il sonno ardente dell'Africa, colui sottrarrà la sua spoglia ad ogni contesa e ad ogni onta: saprà accendere a sé stesso il suo rogo e spargere al soffio del novel tempo il suo cenere.

      Posti dall'arte tragica dinanzi a un problema spaventevole il Greco dell'Evo eroico e il Latino della terza Roma, entrambi lo affrontano con animo vittorioso quantunque entrambi appariscano vinti. Ora il primo non cerca di comprendere: non scioglie il nodo, sì bene lo taglia con la spada di Ettore. Raggiunge il luogo deserto e s'immola, pago di spandere col sangue una grande anima. Compie così il riscatto dell'atto, accettando la necessità dell'immolazione. Ma il secondo ha l'occhio più sagace e audace: egli non teme di discendere nel suo proprio abisso e d'illuminarlo. Al lume del suo pensiero egli riconosce che l'atto è estraneo alla sua vita verace, alla sua sostanza profonda; e che per ciò egli non deve sodisfare la giustizia umana con alcuna ammenda. «Pentimento? espiazione? La tua luce non è la mia.» Risale dall'abisso con uno smisurato impeto di libertà, portando un superbo vóto al sepolcro: libero per la morte e libero nella morte. Non più considera sé come un colpevole che vuol sottrarsi alla pena, ma come un nemico che vuol vendicarsi. «Sono un nemico.» Troppo hanno pesato su la sua pazienza gli uomini impuri, il tristo tempo. La sua fine sarà una festa d'orgoglio: rampogna, incitamento e promessa ai superstiti.

      Ho detto che il giorno della mia tragedia è un giorno di trasfigurazione. Meglio forse avrei potuto chiamarlo: un giorno d'invenzione eroica. Qui ciascun personaggio, sotto l'urto dei fati, inventa la sua virtù; che diviene la sua difesa, la sua necessità e la sua bellezza. Si muovono essi in un'ombra vespertina; ma, dopo la vigilia che segue il primo vespro, la loro vita interna è infiammata da una luce di aurora. Se non mi fosse impedito dall'angustia e dalla povertà della moderna scena, io vorrei porre davanti agli occhi dello spettatore non soltanto l'imagine del Fiume fidiaco ma quella della Donna michelangiolesca che si sveglia su l'arca, ai piedi del Pensieroso, con in tutte le membra la pesantezza di un dolore titanico; il qual non è se non l'ingombro dei pensieri e degli atti ancor costretti nell'impronta materna perché troppo ancóra immeritevole di riceverli si mostra il popolo degli schiavi, non pur degno di far da strame al sonno della sorella Notte che là di contro dorme senza riposarsi.

      Una scena ornata di statue non comporta se non la più severa nudità. L'arte del tragedo, come quella dello statuario, ha per oggetto il nudo. Obbedendo alla legge della mia arte, con non timida mano io ho spogliato di ciò ch'era vile e fugace l'anima dei miei simulacri e ho potuto talvolta sollevarla fino alla regione del canto. La stanza dell'Ulisside, nel secondo episodio, non è dissimile alla tenda del Telamonio. Il «lordume civile» sembra spazzato via per sempre, se bene salga per la finestra aperta «il romorio degli insetti umani». E quel romorio è remoto come il rombo dell'Ellesponto.

      Nel primo episodio la denudazione inesorabile avviene sotto gli occhi stessi dello spettatore. I personaggi non sono ancor del tutto liberati dal pregiudizio e dalla menzogna, non hanno ancor del tutto abbandonata la paura di soffrire e di far soffrire. Di tratto in tratto ancor s'ode, nelle pause della loro angoscia, la voce fioca e roca della consuetudine. A ogni parola, a ogni gesto del violento sembra che nell'aria della stanza tranquilla qualche cosa si schianti, qualche cosa si laceri. Quando il domatore di fiumi col linguaggio della poesia celebra la riconciliazione