lontano, prima ancora che l’interprete dell’albergo, il quale m’accompagnava, me lo indicasse. Era sulla porta della Legazione, in mezzo ad alcuni arabi immobili in un atteggiamento ossequioso, che pareva aspettassero degli ordini. Mi presentai, mi ricevette da par suo, mi volle sin da quel momento ospite del quartier generale, e mi diede notizie della spedizione. La partenza era rimandata ai primi di maggio, perchè a Fez, in quei giorni, v’era l’ambasciata inglese. S’aspettavano di là i cavalli, i cammelli, i muli e un drappello di cavalleria che ci avrebbe scortati in viaggio. Un bastimento da trasporto della nostra marina militare, il Dora, allora ancorato a Gibilterra, aveva già portato a Larrace, sulla costa dell’Atlantico, i regali che Vittorio Emanuele mandava all’Imperatore del Marocco. Lo scopo principale del viaggio, per l’incaricato d’affari, era di presentare le credenziali al giovine sultano Mulei el Hassen, salito al trono nel settembre del 1873. Nessun’ambasciata italiana era mai stata a Fez. Era la prima volta che si portava nell’interno del Marocco la bandiera della nuova Italia. Perciò l’ambasciata sarebbe stata ricevuta con straordinaria solennità. Il nostro Ministero della guerra aveva mandato un capitano di stato maggiore, il signor Giulio di Boccard; il Ministero della Marina, un capitano di fregata, il signor Fortunato Cassone, allora comandante del Dora, ora capitano di vascello. Questi, insieme col vice-console italiano di Tangeri e col nostro agente consolare di Mazagan formavano la parte ufficiale dell’ambasciata. Il pittore Ussi di Firenze, il pittore Biseo di Roma ed io eravamo invitati privatamente dal signor Scovasso. Tutti, eccetto l’agente di Mazagan, si trovavano già a Tangeri.
La mia prima occupazione, appena rimasto solo, fu di osservare la casa nella quale ero ospitato; e veramente la casa d’un Ministro europeo in Africa, d’un Ministro, in specie, che si prepara ad un viaggio nell’interno, è degna d’osservazione. L’edificio, per sè stesso, non ha nulla di straordinario: di fuori è bianco e nudo, ha un giardinetto davanti, un piccolo cortile nell’interno, e nel cortile quattro colonne sulle quali s’appoggia una galleria coperta che gira tutt’intorno all’altezza del primo piano. È una casa signorile di Cadice o di Siviglia. Ma la gente, la vita di questa casa mi riuscì affatto nuova. Governante e cuoco, piemontesi; una serva mora di Tangeri ed una negra del Sudan, coi piedi nudi; camerieri e stallieri arabi vestiti di grandi camicie bianche; guardie consolari, con fez, caffettano rosso e pugnale; tutta questa gente in moto per tutta la giornata. Poi, a certe ore, un andirivieni di operai ebrei, di facchini neri, d’interpreti, di soldati del Pascià, di mori protetti dalla Legazione. Il cortile era ingombro di casse, di letti da campo, di tappeti, di lanterne. A tutte le ore si sentiva picchiare il martello e strider la sega, e i servi chiamarsi fra loro con quei nomi strani di Fatma, Racma, Selam, Mohammed, Alì, Abd-er-Rhaman. E la mescolanza delle lingue! Un moro faceva un’imbasciata in arabo a un altro moro, che la trasmetteva in spagnolo alla governante, che la ripeteva in piemontese al cuoco. Era un continuo intrecciarsi di traduzioni, di commenti, d’equivoci, di dubbi, intercalati di Por dios, d’Allá e di sacrati italiani. Nella strada una processione di cavalli e di mule. Davanti alla porta un gruppo permanente di curiosi, o di poveri diavoli, arabi ed ebrei, aspiranti, alla lontana, alla protezione della Legazione. Di tratto in tratto la visita d’un ministro o d’un console, a cui si inchinavano tutti i fez e tutti i turbanti. Ogni momento l’apparizione d’un messo misterioso, d’un vestiario sconosciuto, d’una faccia strana. Infine una varietà di figure, di colori, di gesti, d’accenti, di faccende, da non mancarvi che la musica per credere d’essere in teatro, alla rappresentazione d’un ballo mimico di soggetto orientale.
Il mio secondo pensiero fu d’impadronirmi di qualche libro del mio ospite per sapere in che paese mi trovassi, prima di mettermi a studiare i costumi. Questo paese, chiuso fra il Mediterraneo, l’Algeria, il deserto di Sahara e l’Oceano, attraversato dalla grande catena dell’Atlante, bagnato da larghi fiumi, aperto in pianure immense, dominato da tutti i climi, privilegiato, nei tre regni della natura, di ricchezze inestimabili, destinato, per la sua giacitura, ad essere una gran via di commercio fra l’Africa centrale e l’Europa; è ora occupato da circa otto milioni d’abitanti tra berberi, mori, arabi, ebrei, negri ed europei, sparsi sopra una estensione di terreno più vasta della Francia. I berberi, che formano il fondo della popolazione indigena, selvaggi, turbolenti, indomiti, vivono sulle montagne inaccessibili dell’Atlante, quasi indipendenti dall’autorità imperiale. Gli arabi, il popolo conquistatore, occupano le pianure, ancora nomadi e pastori e non in tutto degeneri dalla fierezza del carattere antico. I mori, arabi incrociati e corrotti, discendenti in gran parte dai mori di Spagna, abitano le città, ed hanno nelle mani le ricchezze, le cariche, il commercio. I neri, cinquecentomila circa, provenienti dal Sudan, sono per lo più servi, lavoratori e soldati. Gli Ebrei, presso a poco eguali di numero ai neri, discendenti la più parte dagli Ebrei esiliati d’Europa nel medio evo, oppressi, odiati, avviliti, perseguitati più che in nessun altro paese del mondo, esercitano le arti e i mestieri, mercanteggiano, s’industriano in mille modi coll’ingegno, la pieghevolezza e la costanza propria della loro razza, e trovano un compenso all’oppressione nel possedimento dei denari strappati ai loro oppressori. Gli Europei, che l’intolleranza mussulmana respinse a poco a poco dall’interno dell’Impero verso le coste, son meno di due migliaia in tutto il Marocco, abitano la maggior parte la città di Tangeri, e vivono liberamente all’ombra delle bandiere dei Consolati. Questa popolazione eterogenea, dispersa, inconciliabile, è, piuttosto che retta, oppressa da un governo soldatesco, che succhia come un immenso polipo tutti gli umori vitali dello Stato. Le tribù e le borgate obbediscono agli sceicchi, le città e le provincie ai Caid, le grandi provincie ai pascià, e i pascià al Sultano, grande Sceriffo, sommo sacerdote, giudice supremo, esecutore della legge che emana da lui, libero di mutare a suo capriccio monete, imposte, pesi, misure, padrone delle sostanze e delle vite dei suoi sudditi. Sotto il peso di questo governo, e dentro al cerchio inflessibile della religione mussulmana, rimasta immune da ogni influsso europeo, e snaturata da un fanatismo selvaggio, tutto ciò che negli altri paesi s’agita e procede, là rimane immobile o rovina. Il commercio è strozzato dai monopoli, dalle proibizioni d’esportazione e d’importazione, dalla capricciosa mutabilità delle leggi. L’industria, ristretta nella sua attività dai vincoli posti al commercio, è rimasta come prima della cacciata dei Mori dalla Spagna, coi suoi strumenti primitivi e coi suoi procedimenti infantili. L’agricoltura, oberata di balzelli, vincolata nell’esportazione dei prodotti, non curata che quanto richiedono le prime necessità della vita, è decaduta a segno da non meritar quasi il nome d’arte. La scienza, soffocata dal Corano, contaminata dalla superstizione, si riduce, nelle maggiori scuole, a pochi elementi, quali s’insegnavano nel medio evo. Non v’è stampa, nè libri, nè carte geografiche; la lingua stessa, corruzione dell’arabo, non rappresentata che da una scrittura imperfetta e variabile, si va sempre più degradando; il carattere nazionale nella generale decadenza si corrompe; tutta l’antica civiltà mussulmana deperisce. Il Marocco, questo estremo baluardo occidentale dell’Islamismo, già sede d’una monarchia che dominava dall’Ebro al Sudan e dal Niger alle Baleari, glorioso d’Università fiorenti, di biblioteche immense, di dotti famosi, d’eserciti e di flotte formidabili, non è più che un piccolo Stato pressochè sconosciuto, pieno di miseria e di rovine, che resiste colle ultime sue forze all’invasione della civiltà europea, sorretto ancora sulle sue fondamenta sfasciate dalle reciproche gelosie degli Stati civili.
Quanto a Tangeri, l’antica Tingis, che diede il nome alla Mauritania tingitana, e passò successivamente dalle mani dei Romani in quelle dei Vandali, dei Greci, dei Visigoti, degli Arabi, dei Portoghesi, degl’Inglesi, è una città di quindicimila abitanti, che le sue sorelle dell’Impero considerano come una «prostituta dei Cristiani», benchè non vi rimanga più traccia delle chiese e dei monasteri che vi fondarono i Portoghesi, e la religione cristiana non v’abbia che una piccola cappella, nascosta in mezzo alle case consolari.
Dopo ciò cominciai a fare per le strade di Tangeri qualche studio preparatorio per il viaggio, notando giorno per giorno le mie osservazioni. Ed eccone alcune, incomplete e slegate, ma scritte sotto l’impressione immediata delle cose, e perciò forse più efficaci d’una descrizione pensata.
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Io mi vergogno quando mi passa accanto un bel moro vestito in gala. Paragono il mio cappelluccio al suo enorme turbante di mussolina, la mia misera giacchetta al suo lungo caffettano color