figura d’un scarabeo accanto a una farfalla. Sto qualche volta lungo tempo a contemplare, dalla finestra della mia camera, un palmo di calzoncino color di sangue e una babuccia color giallo d’oro, che spuntano di dietro a un pilastro, giù nella piazzetta, e ci provo un piacere, che non ne posso staccar lo sguardo. E più d’ogni cosa m’innamora e mi mette invidia il caìc: quel lungo pezzo di lana o di seta bianchissima, a striscie trasparenti, che si avvolge intorno al turbante, casca sulla schiena, gira intorno alla vita, si ripiega sulle spalle, e ridiscende fino ai piedi, e velando vagamente i colori pomposi dei panni, ad ogni alito di vento tremola, ondeggia, si gonfia, par che s’accenda ai raggi del sole, e dà a tutta la persona l’apparenza vaporosa d’una visione. In questo bellissimo velo avvolge e stringe sè e la sposa il mussulmano innamorato nella notte nuziale.
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Chi non abbia visto, non può immaginare fino a che punto giunga, presso gli Arabi, l’arte di sdraiarsi. In angoli dove noi ci troveremmo imbarazzati a mettere un sacco di cenci o un fastello di paglia, essi trovano il modo di adagiarsi come sopra un letto di piume. Si arrotondano intorno a tutte le sporgenze, riempiono tutte le cavità, si appiccicano ai muri come bassorilievi, si allungano e si schiacciano sul terreno in maniera da non parer più che cappe bianche distese ad asciugare, si attorcigliano, piglian la forma di palle, di cubi, di mostri senza braccia, senza gambe, senza testa; così che le strade e le piazze della città paiono seminate di cadaveri e di tronchi umani, come dopo una strage.
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Più considero questa gente, e più ammiro la nobiltà dei loro movimenti. Fra noi non v’è quasi alcuno che o per l’impedimento degli abiti, o per la strettezza della calzatura, o per vezzo, non abbia un’andatura contraffatta. Costoro si movono colla libera eleganza di superbi animali selvaggi. Cerco e non trovo in mezzo a loro nemmeno uno di quei mille atteggiamenti da rodomonte, da ballerino e da innamorato svenevole, ai quali abbiamo l’occhio abituato nei nostri paesi. Tutti hanno nel loro modo di camminare qualcosa della compostezza d’un sacerdote, della maestà d’un re e della disinvoltura d’un soldato. Ed è strano che quella stessa gente che sta tante ore del giorno accovacciata, immobile, quasi intorpidita, spieghi, non appena è scossa dalla passione, un vigore di gesto e di voce che tocca la frenesia. Ma anche nel prorompere delle passioni più violente, serbano una sorta di dignità tragica, che potrebbe servir d’esempio a molti attori. Ricorderò per molto tempo l’arabo di stamane, un vecchio alto e consunto, il quale, avendo ricevuto, per quello che si disse, una mentita da un tale con cui fino allora era andato disputando pacatamente, impallidì, dette indietro, e poi si slanciò giù per la strada coprendosi il viso colle mani convulse e gettando un urlo di rabbia e di dolore. Io non ho mai visto una figura più terribile e più bella.
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La maggior parte non hanno addosso che una semplicissima cappa bianca; eppure quanta varietà fra di loro! Chi la porta aperta, chi chiusa, chi tirata da un lato, chi ripiegata sulla spalla, chi infilata, chi sciolta, ma sempre posta con garbo, variata di pieghe pittoresche, cascante, in linee facili e severe, come se l’avesse panneggiata, o piuttosto, come la vorrebbe saper panneggiare un artista. Ognuno di costoro arieggia un senatore romano. Stamattina l’Ussi ha scoperto un meraviglioso Marco Bruto in mezzo a un gruppo di beduini. Ma se non ci è abituata la persona, non basta la cappa a nobilitar la figura. Parecchi di noi n’han comperata una per il viaggio, e se la provarono; e m’è parso vedere dei vecchietti convalescenti infagottati in un lenzuolo da bagno.
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Non ho ancora visto tra gli arabi un gobbo nè uno storpio nè un rachitico; ma molti senza naso, effetto di morbo celtico; moltissimi ciechi, e i più fra questi colle occhiaie vuote; vista che mi fa rabbrividire quando penso che ad alcuni, forse, è stato strappato il globo dell’occhio in virtù della legge del taglione, che vige nell’Impero. Ma nessuna bruttezza ridicola in mezzo a tante figure strane e rincrescevoli. Il vestito ampio nasconde i piccoli difetti, come la gravità comune e l’apparenza lignea, terracea o bronzina delle carni, dissimula la differenza d’età. Il perchè s’incontrano ad ogni passo uomini d’un’età indefinibile, dei quali si può dire soltanto che non sono nè vecchi nè adolescenti; e o si giudicano maturi, e un lampo di sorriso rivela inaspettatamente la giovinezza; o si credono giovani, e il cappuccio rovesciato mostra tutt’a un tratto i capelli grigi.
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Gli Ebrei di qui arieggiano nei lineamenti del viso quelli dei nostri paesi; ma la statura più alta, il colorito più bruno, i lunghi capelli neri, e sopra tutto il vestire pittoresco li fa parere tutt’altra gente. Portano un vestito della forma presso a poco d’una veste da camera, di vario colore, per lo più oscuro, stretto intorno alla vita da una fascia rossa; una berrettina nera; calzoni larghi che sporgono appena un palmo disotto alle falde, e le pantofole gialle. Ed è strano il numero di «eleganti» che si vedono in mezzo a loro, vestiti di stoffe finissime, con camicie ricamate, ciarpe di seta, catene ed anelli d’oro; ma punto vistosi; austeri, invece, nell’insieme dell’abbigliamento, e pieni di grazia e di dignità signorile, eccetto quei pochi disgraziati che si prostituirono al cappello cilindrico e al soprabito nero. Fra i ragazzi vi sono delle figurine gentili; ma quella specie di veste da camera in cui si fasciano, non s’addice alla età loro. Ogni ragazzo ebreo mi par un dilettante da teatrino di collegio, vestito per far la parte del protagonista nel Campanello dello speziale.
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Trovo, sinora, che non è un’esagerazione quello che si dice della bellezza delle ebree marocchine, che ha un carattere suo proprio, sconosciuto in ogni altro paese. È una bellezza opulenta e splendida, di grandi occhi neri, di fronti nivee, di bocche porporine, di contorni statuarii, una bellezza da palco scenico, che abbarbaglia da lontano, e strappa piuttosto un applauso che un sospiro, e piace di raffigurarsela in mezzo alle fiaccole e alle tazze inghirlandate d’un banchetto antico, come nella sua cornice naturale. Le ebree di Tangeri non vestono in pubblico il ricchissimo costume tradizionale; son vestite presso a poco all’europea, ma di colori ciarlatanissimamente vistosi, blù solferino e rosso di carminio, giallo di zolfo e verde d’erba montanina, scialli e gonnelle che feriscon l’occhio da una collina all’altra; in modo che paiono donne ravvolte dentro a bandiere di tutti gli Stati del mondo. Il sabato, passando per le strade abitate dagli ebrei, si vedono da ogni parte quei colori, quei visi floridi, quegli occhioni dolci e ridenti, quelle treccie lunghe e nerissime; nidiate di ragazze chiassose e curiose; un rigoglio di gioventù e di bellezza sensuale, che contrasta vivamente colla solitudine austera delle altre vie.
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Mi fanno ridere i ragazzi arabi. Di quei piccini, che possono appena camminare, anch’essi insaccati nella cappa bianca, non si vede altro che il cappuccio, e paiono spegnitoi ambulanti. La maggior parte hanno la testa rasa nuda come la mano, eccetto una trecciolina sul cocuzzolo lunga un par di palmi, che si direbbe lasciata apposta per poterli appendere ai chiodi come le marionette. Alcuni l’hanno invece dietro l’orecchio o sopra la tempia, con qualche ciocca di capelli tagliati in forma di quadrato o di triangolo, che è il distintivo degli ultimi nati nelle famiglie. I più hanno un bel visetto pallido, un corpicino ritto e sciolto e un’espressione d’intelligenza precoce. Nelle parti più frequentate della città, non badano agli Europei; nelle strade appartate, si contentano di guardarli attentamente, coll’aria di dire:—Non mi piaci.—Qualcuno avrebbe voglia di dire un’impertinenza: glie la vedete scintillare negli occhi e guizzare sulle labbra; ma di rado se la lasciano sfuggire dalla bocca, non tanto per rispetto del Nazareno, quanto per paura del padre, che sente l’odore delle Legazioni. In ogni caso, però, alla vista d’un soldo si quetano. Ma bisogna guardarsi da tirare il codino, perchè ieri, passando, diedi una tiratina a un fantoccio alto un palmo, e lui mi si voltò contro inviperito, borbottando alcune parole, che significavano, mi disse l’interprete:—Dio faccia arrostire tuo nonno, maledetto Cristiano!
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