Francesco Domenico Guerrazzi

Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI


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prò neppure di un bagattino, se non avessimo provveduto prima alla casa di Dio….

      —Che cosa andate voi bestemmiando di casa di Dio? Ha egli mestieri di casa per ricovrarsi dalla pioggia, o dalla bruma della notte come noi altri? Casa di Dio è l'universo; sono le stelle, il sole, la luna, e tutto quanto vive, vegeta e cresce quaggiù. Tutto è Dio. In tutto penetra, da tutto emana la Divinità. Dio vuolsi adorare nelle magnificenze della natura, nelle opere dello intelletto, nella innocenza e nella sensibilità dell'uomo.

      —Signor Conte, rispose il Curato mettendosi la destra sul cuore, e con dignitosa semplicità, io sono un uomo povero d'intelletto: credo quello che i miei padri credevano, e non cerco più oltre. Io so eziandio che lo spirito umano spesso si spinge temerariamente a tal punto, dove non comprende più nulla; e allora, fra il dubbio che tormenta e la fede che consola, parmi cosa savia attenermi alla fede.—

      Queste schiette parole punsero sul vivo il Conte Cènci, il quale studiando dissimulare la ferita con la moltiplicità degli empii discorsi, si affrettò a replicare:

      —Voi già, secondo l'usanza dei sofisti, ve la svignate fuori del seminato. Io non vi contrasto la credenza, ma il modo del credere. O come volete voi che a Dio incresca l'acqua piovana dentro la vostra parrocchia, poichè s'egli ve l'avesse a uggia sarebbe padrone di non la mandare? Egli ha creato l'acqua, e il fuoco altresì: ora, se quando è bagnato vuole asciugarsi, non ha a far altro che prendere con le molle uno degl'infiniti soli del cielo, e metterselo nel cammino. Può temere l'acqua Colui, che vi cammina sopra come se fosse un selciato? Egli che apre e chiude le cateratte dei cieli come fo io di questa cassetta?—Via, via, Curato mio, almeno confessatemi questo, che a lui nulla importa di nuvoloso, nè di sereno.—Ecco qua; questi sono ducati, e sfolgoranti… (—e qui preso un pugno di scudi d'oro, gli distendeva dinanzi agli occhi del prete—) io voglio che sieno vostri; a patto però, che gli spendiate solamente per voi e per Verdiana. Dio è ricco abbastanza per farsi le spese da se.

      E sì favellando protendeva il viso tentatore come il Diavolo a santo Antonio. Il Prete covava la moneta con gli occhi, e da tutti i pori del corpo gli trasudava la cupidigia della miseria. Una molto terribile battaglia si combatteva in quella povera anima. Il Conte però, notando come il Prete girava nel manico, insisteva alacremente:

      —E questa ultima ragione sopra le altre vi muova, che se voi non accettate il patto io gli ripongo in cassetta…

      —Eccellenza!…

      —Ma via, mettiamo da parte le ragioni che vi ho esposto: a voi non garbano, ed io non vi voglio chiudere il Limbo che vi aspetta. Non è egli vero, che voi dovete provvedere a due cose: alla chiesa ed alla canonica? Poniamo dunque che la chiesa sia santa; la canonica voi non impugnerete già che sia religiosa! Ora chiaritemi un po' come possiate commettere questo grossissimo peccato, incominciando dalla seconda piuttostochè dalla prima?—Voi troverete tanto cammino fatto nello adempimento dei vostri doveri. Non vi ostinate; ricordatevi che vi ha tal giusto, che per la sua giustizia perisce; e questo ha detto re Salomone…

      —Eccellenza… veramente… in questa maniera… mi parrebbe… e nondimeno…

      —Su, via, dunque; accettate, e promettete adoperarli unicamente per voi. Considerate, in grazia, quest'altro: se Dio è, come voi ed io crediamo, eterno, non gli dorrà aspettare quattro o sei anni, e potrei dire secoli. Se voi foste diverso da quello che siete, vi direi: facciamo un poco come lui, che non pensa mai a noi…—Sicchè; li volete, o non li volete?

      —Ah signore! la tentazione è grande; ma io temo commettere un grossissimo peccato…

      —Li volete, o non li volete?

      —Ma mi lasci riflettere. Non è mica cosa da niente uno scrupolo di peccare, per un parroco che ha la cura delle anime…

      —Ebbene; ponete tutto a debito dell'anima mia. Tanto io ho conto lungo col paradiso…—Ah! li prenderò…

      L'angiolo dell'Accusa portò questo peccato alla cancelleria del cielo e lo registrò nel libro maestro delle colpe umane, senza che l'angiolo della Misericordia vi lasciasse cader sopra una lacrima, e ve lo cancellasse per sempre come sul pietoso giuramento dello zio Tobia.

      —Ecco il danaro; promettete dunque?

      —Prometterò.

      —Ora avvertite di non mancare; manderò, o verrò io stesso a vedere se avrete attenuto il patto: se troverò altrimenti, guai! Mi chiamo Francesco Cènci, e basta.

      Il Curato fra lieto e tristo intascò la moneta; e, profferte umilissime grazie, con copia di riverenze si allontanò dal male visitato barone.

      ———

      Marzio tornava in compagnia di Olimpio. Ebbe Marzio la promessa mercede, ed ordinandolo il Conte si ritirò nell'anticamera.

      —Che c'è egli di nuovo, Eccellenza?

      —Ci sono altri centoquaranta ducati da metterti nella cintura…

      —Voi mi volete far morire d'indigestione…

      —Mi era parso, poc'anzi, tu ti partissi pessimamente soddisfatto, ed io ho voluto richiamarti perchè tu abbi la miglior giunta alla buona derrata.

      —Questo è proprio un diluvio di tenerezza per me!

      —Tristo cavaliere è colui, che non ha cura del suo cavallo; e non vi ha favore ch'io non mi mostrassi parato a farti, per torre via dal tuo cuore quella po' di ruggine che potresti avere concepito contro di me.

      —Ruggine, io? Ma che vi pare, don Francesco; io vi ho voluto sempre più bene che al pane.

      —Che si fa a morsi, eh? Vien qua, piacevolone, ch'ella è appunto una burla quella che ti propongo. I ducati, di che io ti diceva, già sono tuoi…

      —Dove son eglino?

      —Non manca altro, che tu le li vada a pigliare. Non torcere il muso. Hai tu veduto quel corvo di prete? Ebbene; io glieli ho donati secondo la tua intenzione. Ora hai da sapere come costui sia curato a santa Sabina, piccola chiesa lontana dall'abitato. In casa tiene una vecchia, un gatto, e, a quanto pare, un asino: faccenda agevole, e da compirsi stanotte. Troverai i danari dentro allo inginocchiatoio accanto al letto del prete.

      —O perchè glieli donaste voi, se avevate in mente di ritorgli sì presto a quel poveraccio?

      —Quando io pretesi insegnarti la maniera di entrare nel palazzo Falconieri, tu mi avvertivi non ispettare a me mescolarmi in simili bisogne…. te ne ricordi? Adopera dunque verso me la discretezza, che volesti io usassi teco.

      —Avete ragione: non fa neanche una grinza. Volete, altro, don

       Francesco?

      —Ah! sì; un altro servizietto da poco. Conosci il falegname, che abita presso Ripetta? Quel desso, che rifece la casa co' miei danari?[3]

      —Quel giovane, che stava dianzi in sala ad aspettare? Sicuro che lo conosco, e so dove sta di casa; perchè quando la faceste rifabbricare di nuovo andai a vederla, per ingegnarmi a spiegare su la faccia del luogo lo indovinello della vostra beneficenza.

      —E non sono uso a fare del bene io? Ed anche adesso non ti benefico? Non aggiungere la ingratitudine agli altri tuoi peccati, perchè egli è quello che più dispiaccia all'angiolo custode.—Domani notte…

      —Non posso servirvi: sono impegnato col signor Duca… non rammentate?

      —Farò le tue scuse…

      —Abbiate pazienza; l'onore del mestiere non permette che io manchi…

      —Procurerò che egli ti dia licenza di propria bocca…

      —Oh! allora va bene.

      —Domani notte, dunque, t'introdurrai come potrai nella bottega del falegname. Prendi gli arnesi e i legni che troverai là dentro, ed alzane una catasta: poi mettivi sotto i fuochi lavorati, ch'io ti apparecchierò; e verrai per essi domani dopo l'Ave Maria, presentandoti alla porta