a seppellire l'anima dentro ad un pane; ed ha sbagliato per molte ragioni, e primamente perchè le anime non si seppelliscono dentro ai pani, come non si affogano dentro l'acqua benedetta; e poi perchè veruno al mondo per quanto potentissimo egli sia può sostituirsi in luogo della Provvidenza, ed il concetto di bastare al pane di trenta e più milioni di uomini si reputa infermità da curarsi con l'elleboro; anco a un milione non lo potrai dare, che scarso, e per tempo non lungo.—Di vero la Francia con quasi due miliardi di entrata dopo lo impero patisce un manco nel bilancio di 336 milioni a ragguaglio di un'anno per l'altro; ed ora di un tratto ci palesa per soprassello un vuoto di 900 e più milioni. La Democrazia va agitata da istinti immani, che brancolano come una volta l'Erebo, e la Notte dentro il Caos prima che l'onnipotente Architetto ordinasse il mondo; dentro le odierne forme sociali la Democrazia si sente scoppiare, tutto è dolore per lei, la vita come la morte; così non va bene, bisogna che muti; ma come mutare? Qui il nodo.—I sapienti almanaccano con certi sperimenti loro, che chiamano scienza, e i derivati suoi predicano assiomi, ma poi alla prova nè manco essi ci credono; arroganza antica di empirici: frai sapienti davvero Socrate ti afferma nella sua vita avere saputo non sapere nulla, Pirrone dubitava di tutto, santo Agostino di molto, san Tommaso di Aquino distingueva: i nostri divini intelletti all'opposto non distinguono mai, di nulla dubitano, tutto sanno. La Democrazia molto si arrovellò un giorno per le forme politiche degli Stati suspicando che per colpa, o per virtù loro ei prosperassero o intristissero; adesso ricreduta alle forme politiche non bada, o poco ella più che tutto pensa a mutare l'alveo al fiume della umanità. Che giova nascondere la faccia delle cose? Nè per ambagi, nè per dinego può farsi che le cose non appariscano e non sieno. La Democrazia se dal dispotismo ricavò sempre male, non sempre ebbe bene dalla Repubblica; che monta regno, e che monta repubblica? Agide e Cleomene Re sentirono pietà pel popolo, come si commossero per lui Tiberio, e Caio Gracco tribuni, tribuni e Re rimasero dai conservatori, o aristocratici, ottimati, moderati, o con quale altro più reo nome voi li vogliate chiamare, insomma i privilegiati che intendono circondare il privilegio col terrore delle leggi, e la mannaia del carnefice. Parecchi ed io con loro confidarono potesse cosiffatta trasformazione operarsi a mano a mano, e all'avvenante che si abbatteva il vecchio costruirsi il nuovo: i conservatori, o moderati che vogliamo dire (e si faceva per loro!) non compresero, o rifiutando comprendere proruppero in calunnie; e forse quanto divisammo non poteva accadere: in questo come nella più parte dei nostri disegni abbiamo conosciuto la verità della parola del divino maestro, che toppa nuova su panno vecchio non regge; grandissima parte di noi in premio dei travagli sofferti avrà fama nei posteri di trave in mezzo alla via, ostacolo al progresso della umanità; felice colui di cui le forze a spingere rinvenute uguali a quelle del respingere passerà senza infamia e senza lode: fie per noi desiderabile essere stimati uomini inutili.—Il moto, che agita i popoli rigettato indietro, poichè la scienza non gli trovò lo sbocco, glielo faranno trovare l'ira, e la necessità. Che aspetto presenteranno gli umani consorzi dopo gli eventi presagiti? Chi può dire che sarà della terra dopochè l'avranno solcata le lave dei vulcani?—Quello, che deve accadere accadrà; questa iscrizione si leggeva sopra il castello di Enrico IV nel Bearnese; sia permesso a me popolano usurpare la iscrizione del Re.
La Democrazia pertanto, secondo la opinione mia, sforzerà alla guerra il Napoleonide, ma non lo sovverrà, e nè egli vorrà essere sovvenuto: oggi costui si trova ridotto a tale, che non può stare con lei, nè senza di lei: preso pei capelli dalla Democrazia egli si ostinerà ad ordinare la guerra regia; e la Democrazia sola è capace di soffiare il vento, che spinge la tua bandiera in faccia al nemico; cotesto vessillo poi di qua o di là, che sventoli tu avrai sconfitta o vittoria; però che solo dalla Democrazia puoi ottenere i volontari, che fuggendo prima a Gemmappe portarono poi le aquile imperiali per tutta la terra ferma di Europa.—Con chi vorrà o potrà collegarsi il Napoleonide? E' vi ha chi dice con la Italia, e con la Russia, e sembra strano che la guerra mossa dagli strazi della Polonia andasse a finire con la lega della Russia; ma i tempi e l'uomo ci hanno avvezzi a bene altri contrasti, e te ne persuaderai solo, che tu confronti la impresa d'Italia con quella del Messico. Comecchè dunque siffatta lega non s'impugni, pure ne esecriamo il presagio nè la crediamo per nulla; avvertiamo ad altro. Lega con l'Austria non sembra possibile, imperciocchè la blandizie insidiosa del Messico rifiutata[1], palesa il suo animo alieno dalla Francia del pari che il Congresso non accolto dalla Inghilterra lo dimostra avverso; e veramente riesce duro a credersi, che l'Austria voglia scendere in campo per affrancare la Polonia di cui parte ella abbranca dentro ai suoi artigli; nè a lei talentano davvero le guerre, che mirano al riscatto dei popoli dalla servitù; lo stesso dicasi della Prussia su la quale molto ascendente esercita la Inghilterra; nè vediamo quale sarebbe il compenso della impresa zarosa: forse la promessa all'una ovvero all'altra potenza della Polonia riscossa di mano alla Russia; ma chi compra pelle di Orso prima, che sia preso? E poi qui occorre conquista doppia: prima vincere la Russia, poi la Polonia. O vorrà il Napoleonide mettersi allo sbaraglio con solo la Italia, e forse con la Turchia? Quando Napoleone I si avventò contro la Russia, eccetto la Inghilterra, traeva seco alleata tutta la Germania, che allo improvviso gli si voltò nemica; sarebbe prudente che ci si avventurasse Napoleone III con la Germania avversa? Se lo facesse, la Italia dovrebbe, o potrebbe seguitarlo?
[1] Finalmente Massimiliano accettò, ma l'Austria ingratamente il sofferse, sicchè il concetto non muta in nulla.
La Italia non può seguitarlo; imperciocchè la Italia e la Francia portino le pene, quella di non avere preso, questa di averle contrastato Roma. Roma tolta in tempo di mezzo importava per noi stato se non perfettamente, almeno quanto basta ordinato: guerra civile repressa; massima parte di malcontento senza ragione di sorgere, e di durare; erario non florido, ma nè anco agli ultimi tratti; esercito intero, e non guasto da battaglie come vuote di gloria così piene di molto pericolo, e di ferocia, Roma per noi importa la trasformazione di ventidue milioni di stracci ammucchiati, dentro la bottega del rigattiere, in un popolo nobilissimo e potentissimo di ventidue, e più milioni di anime.
La Inghilterra abbisogna in terra ferma di uno stato forte sopra il quale appoggiarsi, non già per offendere, che non le giova, bensì per difendersi, cosa a cui molto ella bada; e fin qui ella si tenne l'Austria, nè le doleva (fosse genio o costume di antica domestichezza), nel quale concetto mi conferma il ricordo delle parole del Russell quando confortava gl'Italiani a riporre ogni loro fidanza nell'Austria ridivenuta mite: ma poichè la Inghilterra conobbe l'Austria dannata ad insanabile decadenza, ella, per quanto ci è dato giudicare, non era aliena, anzi si prestava volonterosa alla composizione del regno italiano, come quello che interponendosi tra la Francia, e la Inghilterra le avrebbe mantenute in pace. Ora finchè la Italia rimanga satellite della Francia la Inghilterra, sembra a noi, che sia condotta ad appoggiarsi su la Prussia, ovvero sopra l'Austria, o sopra ambedue. Se sia provvidenziale o funesto non sapremmo dire, ma certo egli è che tra Francia e Inghilterra vive uno spirito, che le sospinge perpetuo una contro l'altra, e dove la Italia per virtù propria, e per benefizio di fortuna potesse essere assunta alla dignità di araldo fra loro oltre ad acquistare per sè novella gloria, e più desiderabile delle passate assai, forse aprirebbe il varco ad ordine di cose, che fin qui è stato desiderio di anime innocenti o fantasia di poeti. La Italia poi più che altri ci apparisce capace a tanto ufficio, imperciocchè da lei ab antiquo emani aura di civiltà, ed è usa dare alle genti religione, riti, e nozioni di diritti, le quali cose tanto più volentieri si pigliano da lei quanto ella sa meglio vestire il buono con le amabili forme del bello[1]. Veramente l'appetito cieco, massime da principio, poteva ribellarsi da siffatto arbitrato, ed allora la Italia accostandosi colà dove la inchinava la giustizia, avrebbe eziandio con la minaccia della guerra prevenuto la guerra.—
[1] Qui ricordo come certa volta Cammillo Cavour, senza che il bisogno ce lo stringesse, scappò fuori in Parlamento con le parole:—egli non amare, nè intendere le belle arti.—Ond'io, che lo udii giudicai, che nè egli mai avrebbe compreso la Italia, nè mai l'avrebbe degnamente rappresentata: noi come i Greci non significhiamo con una parola sola bello e buono; però reputiamo che buono non possa essere chi ad un punto non sia bello. Chi si avvisa come il morto conte Cavour corre rischio di scambiare le tre Grazie con le tre Furie.
La Italia sembra a me ridotta a tale, che per sè nulla possa, e se mai segue la fortuna di Francia lo farà come il grano messo sotto la mola; vi rimarrà macinata; il perdere di lei è rovina, il vincere servitù: tuttavia messo da parte la