Francesco Domenico Guerrazzi

Lo assedio di Roma


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non rilevano, anzi sovente ingannano e la corda filata con la canape repubblicana non ti strozza meno stretta della fune tirannica; indicare poi rimedii speciali senza il caso di doverli applicare egli è un'ammannire cerotti prima, che il fignolo nasca. Se Casimiro Perier, o Cammillo Cavour tornassero al mondo e mi squadernassero in faccia un manifesto da disgradarne ogni più sterminata dichiarazione dei diritti dell'uomo, uccello accivettato io non cascherei sul vergone; che se all'opposto venisse un Washington, o un Kotschiusko, o un Bolivar, od altro divino spirito, onore di questa natura umana, e dicesse senza più parole: «in me confida» io gli porrei il capo in grembo. Capisco, che a questo modo corriamo pericolo grande; e sarà sempre un bel civanzo poterne fare a meno; ma quando non si può, Siena per forza[1].

      [1] Questo modo proverbiale nasce dal costume praticato dai vari municipi toscani di presentare l'offerta a Firenze nella festa di S. Giovanni; la quale accadeva così: un banditore sotto la loggia dei Lanzi chiamava per ordine di precedenza le città; i deputati delle quali dopo avere risposto si facevano innanzi a deporre la offerta: ora essendo stata chiamata Siena dopo il conquisto di Cosimo dei Medici, i rappresentanti della medesima incapaci a reprimere il rancore esclamarono: per forza. Il popolo conservò la memoria del successo, e ne compose un proverbio. Se a cotesti tempi costumavano i Giornali non avrebbero mancato assicurare che i deputati di Siena avevano risposto allo appello con grida frenetiche o per lo meno entusiastiche.

      Tamen, per dirla a mo' del Macchiavello, due partiti fino d'ora si possono annunziare; il primo consiste appunto nel liquefare il migliaccio rivoluzionario crescendo il fuoco come adoperò il Cellini col buttarci sopra la catasta dei quercioli secchi da più di un'anno, che gli aveva offerto madonna Ginevra moglie del Capretta; e quando il metallo cominciasse a schiarire, e a lampeggiare gittarci sopra anco il pane dello stagno, e dopo il pane piatti, scodelle, e tondi di stagno quanti ne fossero in casa[1]. Molti lo hanno accertato prima di me, ed io più volte lo dissi e lo affermai: a volere che gli uomini sentano, ed operino eroicamente fa mestieri agitarli; la quale sentenza vera in ogni condizione del consorzio umano, comecchè meno imperfetto, torna a capello nella infelicissima del nostro. Le cose oggi sono ridotte a punto, che non farebbe maraviglia se il primo grido dei pargoli a mezzo usciti dall'alvo materno fosse: «quanto per cento mi assicurate per vivere, se no torno dentro….!» La Patria diventò un commercio, la Libertà un'affare, respublica negotiosa come ai tempi della decadenza romana: la più parte degli uomini, guardateli bene, portano segnato il prezzo tra ciglio e ciglio, come i bauli, le sacche, i ninnoli, ed altra siffatta roba vendereccia nelle botteghe dei mercanti, con la differenza, che su questi ci si legge: prezzo fisso; su gli altri no, però che il valore cresca, o scemi secondochè sul mercato vi sia maggiore o minore richiesta di viltà.—A rischio di riuscire sazievole io vo' ripetere, che, battendo alla porta dello Interesse, ei non può darti altro, che uccellatori di strade ferrate, o di appalti, o di cariche, o di gladiatori per dodicimila franchi all'anno, o legislatori per tremila franchi al mese, soccorritori della Patria al saggio[2] del venti per cento l'anno, o impresarii di tempii dedicati a Venere pandemica, o nobili offerenti a conquistarti col grimaldello in mano, e mercè il premio di seicentomila franchi una corona[3], che male si piglia e peggio si tiene se non per virtù di spada, o fornitori di pompe funebri, o scorticatori di capretti, o conti Bastogi.

      [1] Cellini, loc. cit.

      [2] Laggiù tra i Piemontesi dicono tasso. Ci siamo arrangolati a capacitare cotesti buoni fratelli nostri come qualmente il tasso sia una bestia, che dorme assai, di cui occorrono due specie tasso cane, e tasso porco, il quale è anco buono a mangiare: gli abbiamo avvertiti altresì, che il tasso è un'albero, e tutto invano; tasso in Piemonte significa saggio, pro, interesse, frutto, ragione, e cambio, per la quale cosa, ed in virtù della egemonia piemontese si hanno a tirare in mezzo di strada tutte quelle parole italiane vecchie, e valerci di questa piemontese nuova. E già parecchi Toscani con docilità non mai commendevole a bastanza nelle splendide scritture, e dicerie loro bellamente l'adoperano.

      [3] Quanto qui adombriamo adesso è oscuro. Il tempo lo chiarirà.

      E strana cosa, mentre così si ragiona, ed opera da cui dovrebbe con gli atti porgere esempio imitabile al popolo riarso, estenuato, e reietto, che in onta all'eccessivo travaglio tira l'anima co' denti, gli s'intronano gli orecchi gridando: «la Libertà è cara, bisogna pagarla…. Ma, il popolo esclama, dove si trova ella questa Libertà per la quale assottiglio il pane alla mia famiglia, e do il sangue dei miei figliuoli?—Io la conosco come i dannati la gloria del paradiso. Voi sempre in cima, io sempre in fondo, voi sempre gaudenti, io sempre tribolato. Per me intendo Libertà quella che mi accerta vita men dura, e mi leva dall'angustia dell'ignoranza: questa amo, e per questa patirei ogni disagio: la vostra di povero mi ha fatto misero. Per farmi vedere maggior lume voi mi ardete la casa.—Voi bandite inclito versare il sangue per la Patria, ma riscattate il vostro a suono di danaro; i miei figliuoli vanno esenti ad un patto, ed è, che per manco di cibo, o per troppo di fatica vengano sparuti, o cresciuti si guastino. Qui si lapida adesso la umanità co' nomi, e con le apparenze generose si crocifiggono i popoli, la concordia significa tradimento, ordine la morte, libertà servaggio; come altra volta la misericordia era un coltello, e con un va in pace si mandava giù l'odiato innocente per un trabocchetto.»

      Guai allo stato, ed a noi tutti guai se il popolo, confrontati i mali della tirannide con quelli della falsa libertà, un giorno brontoli: «torni il tiranno, almanco egli mi saziava la fame!»

      Quale il fuoco, tale l'anima umana: per crescere l'ardore dei carboni tu li sbraci; la luce alla fiaccola tu la sventoli; commuovi forte l'anima umana e manderà calore, e luce.—Allora nell'agitazione degli affetti i popoli vetusti decretarono a Giove l'ecatombe, sagrifizio di cento bovi, non consultate o neglette le necessità dell'agricoltura, onde temperando più tardi lo incauto zelo, la stessa religione interpetrò per ecatombe non avere inteso significare i padri il sagrifizio di cento bovi, bensì cento gambe di bovi, e così venne ridotto il macello da cento a venticinque teste. Con l'animo agitato dal pericolo, e dal furore di superarlo, e' fu che gli Ateniesi allo approssimarsi dei Persiani votarono a Diana immolarle tante capre quanti avrebbero ucciso nemici; i quali salirono a numero così strabocchevole, che non trovandosi in tutta l'Attica capre sufficienti al sagrifizio, bisognò ridurre il voto a cinquecento per anno; a questo modo ridotto durava anco ai tempi di Senofonte, che ce ne ha lasciato il ricordo[1]. Nè a me giova moltiplicare esempi cavati dalle antiche o dalle moderne storie quando pure ieri io ne vedeva sotto i miei occhi la conferma, conciossiachè disputandosi fra noi sul modo di sovvenire certa sventura fraterna, il popolo non trattenuto dalle parole dei savi, i quali facevano considerare come accadendo gl'infortuni quotidiani, ed uno pur troppo più lacrimabile dell'altro, prudenza persuadeva a risparmiare il danaro tenendone in serbo una parte, ed una parte donandone, divinamente improvvido si rovesciò le tasche dicendo: «a domani qualcheduno penserà.» I santi solo ed il popolo pronunziano col cuore: «Deus providebit,» perchè davvero essi credono in Dio, ed essi solo meritano che Dio risponda alla loro fede.—

      [1] Anabasi, 1. 3. c. 2.

      La storia ci ammaestra l'esempio quanto sia contagioso così pel male, come pel bene; sebbene pel male due cotanti più, ond'io penso che amore desterebbe amore, generosità moverebbe generosità, e se taluno oltre a pagare i consueti balzelli per diventare popolo veracemente, costituire la Italia, uscire dall'uggia, e dalla umiliazione del presente avesse a deporre nell'erario mezza la sua entrata, a patti che l'avanzo bastasse ai bisogni della famiglia, e suoi, per me credo, che lo farebbe.—Che se altri irridendo opponga: «o chi lo para da mettere in esecuzione il suo proponimento?» Si risponderebbe: che a questi Governatori sempre ricusammo pecunia, però, che fino dal ministero Cavour a noi parve il concetto del governo viziato; c'increbbero gli uomini, ma più il disegno; conoscemmo la riga tirata obliqua, la quale quanto più sarebbe stata prodotta, di tanto sariasi dipartita dalla via retta. Anzi le mie parole novissime in Parlamento furono profferite per negare la riscossione provvisoria della rendita pubblica, avversando la opinione di tali, che si professano amici, quanto me, e più di me del vivere libero. Ora hassi a giudicare mal vezzo di animo stolidamente maligno intimarci a depositare il nostro danaro in mano a gente in cui non confidiamo, e che per opinione nostra servirebbe ad allungare