che seppi:
Mi me se inchiava i denti
Quando te voi parlar.
— I xe acidenti — osservò sorridendo donna Luisa Trézel con la sua solita finezza benevola e ironica insieme. — Chi sa — soggiunse sotto voce — che il signor Fogazzaro possa avere il versetto dalla sua fedele.
Tutti risero e io mi seccai. Mi rimisi a giuocare con attenzione; poi, siccome Filippo non veniva a capo di nulla, mi alzai, gli accennai con la mano destra le prime battute dell'Aria di Chiesa.
— Mangio, signor Fogazzaro — disse il generale che non aveva mai tolto gli occhi dallo scacchiere se non per guardare di traverso, qualche volta, pianoforte e suonatore. La sua signora mi domandò se fossi in collera con lei. Non ero in collera, ma mi seccavano le allusioni a quella persona che donna Luisa chiamava la Sua fedele. Era una giovane signora arrivata da tre giorni a S. Bernardino, sola. Nessuno la conosceva. Salutava molto gentilmente ma non parlava mai con nessuno. La gente dell'albergo asseriva ch'era veneziana. Sul cartoncino che là usano allacciare intorno alle salviette, perchè i forestieri vi scrivano il proprio nome, ell'aveva scritto con una calligrafia punto inglese, punto elegante:
Signora Fedele.
Era bionda: non alta ma snella; bellina assai ma più delicata e graziosa che bella. Lo confesso, non saprei dire con certezza il colore de' suoi occhi; avevano forse il colore mutabile del mare presso il quale era nata. Portava sempre lo stesso costume grigio, la stessa toque di pelliccia nera, gli stessi guanti neri. Usciva tardi per qualche passeggiata solitaria; alla fonte non si vedeva mai. La sera scendeva al caffè verso le nove. Se si faceva musica, restava lungamente nel suo angolo scuro, lontano dal pianoforte; altrimenti prendeva il caffè e spariva.
Si facevano commenti infiniti sulla sua origine, sul suo contegno misterioso, sul nome Fedele che serviva persino al generale Trézel per illudersi di avere spirito. Mi accadde una volta, nel solito crocchio della loggia, prender le sue difese contro le signore, che mi parevano troppo maligne. Ella passò in quel momento improvvisamente, salendo dalla via. Era molto accesa in viso, ma non guardò alla nostra volta. Mi guardò invece quel giorno stesso, passandomi vicino nella sala da pranzo, con uno sguardo che a' miei amici parve di gratitudine. Ne avrei proprio fatto a meno, perchè poi non mi tribolassero tanto.
— Che miracolo, stasera, esser venuta giù così presto? — disse piano Filippo che le aveva probabilmente dedicato i suoi pasticci musicali.
Infatti la signora Fedele era già nel suo angolo e suonavano in quel punto le otto.
— Aspetterà il concerto — disse la signora Prina.
Ci avevano annunciato per quella sera il concerto d'un cieco suonatore di pianoforte.
Un signore che stava in piedi presso a me, guardando giuocare al biliardo, ci disse che il concertista si era fatto scusare per una indisposizione del suo compagno.
A questo punto qualcuno disse sull'entrata del caffè:
— Nevica.
Le signore si alzarono esclamando, i giuocatori di biliardo gittarono le stecche, i giuocatori di tarocco le carte. Perfino il generale Trézel accordò una tregua alle mie pedine. Tutti si precipitarono in sala e di là in loggia. Non accade così facilmente di veder nevicare in agosto.
A me, antico frequentatore di quelle Alpi, ciò era successo più volte. Mi alzai tranquillamente e mi accostai a una finestra.
Era uno spettacolo fantastico, una magnifica festa notturna che il vento del Nord e la neve offrivano alla luna. Ella sorgeva sopra mille punte d'abeti, fra due montagne enormi, nel sereno. Ora la vedevo lucida, ora un turbinare di fumo argenteo la nascondeva nella sua stessa luce. Perchè non si poteva propriamente dire che nevicasse. Era neve delle cime, cacciata dalla tormenta. Fra un turbine e l'altro si vedevano tutte le creste bianche fumar su nel cielo azzurro.
— La scusi, signor Fogazzaro — mi disse in veneziano una voce tremante. — Non c'è il concerto, stasera?
Mi voltai, sorpreso.
— Scusi la libertà — riprese la signora Fedele. — So che siamo quasi concittadini.
Ma non mi ero tanto sorpreso del suo improvviso interrogarmi come della commozione strana, profonda, che sentivo nella sua voce, in una domanda così volgare. E poi il caro dialetto usato così di primo acchito, e quel chiamarmi per nome, mi avevano avvicinato con violenza alla misteriosa signora; con una violenza certo voluta da lei chi sa per qual fine.
— S'immagini! — le risposi. — Non credo che ci sia concerto. Ho udito che il compagno del cieco è malato e che questi s'è fatto scusare.
— E andrà via, forse? Non suonerà più?
I begli occhi mi parvero a un tratto più grandi, la voce più tremante.
— Non lo so davvero — risposi. — Credetti poi di dover soggiungere per cortesia:
— Lei ama molto la musica?
Ella non rispondeva, guardava fuori nella tempesta, nel baglior di luna e di neve. Scorso qualche momento, mi domandò ancora:
— Il compagno, ha detto?
— Un signore, poco fa, diceva il compagno; ma ora, pensandoci, credo che s'inganni. Credo che sia una compagna, una signorina.
Ella appoggiò la fronte alle invetriate, come per veder meglio; in fatto, per non esser veduta in viso da me; e ricominciò a parlar con voce più sommessa di prima, più rotta dall'emozione.
— Sono qui senz'amici — diss'ella — senza nessuno, e posso aver tanto bisogno di un'anima buona. Penserà male di me, Lei, adesso? No, sa, non pensi male. So che Lei non mi giudica come gli altri. E poi m'hanno detto che ha famiglia. È per questo!
Parlava, così accorata!
— Si calmi, signora — risposi. — Se posso qualche cosa...
La gente tornava allora correndo, schiamazzando, allegra e intirizzita, dallo spettacolo della neve, e il generale mi cercava con gli occhi per finire la partita. Ci dividemmo rapidamente. Subito dopo, il padrone dell'albergo venne a fare pubblicamente le scuse del concertista, signor Zuane, impedito dalla indisposizione di sua figlia, che doveva accompagnarlo anche al piano. Lo stesso signor Brocco ci informò poi delle tristi condizioni di questo poveruomo, che, senza il concerto, non saprebbe come pagare lo scotto dell'infimo albergo dove alloggiava. Le signore, impietosite, mi pregarono d'andarlo a pigliare. Un valente allievo del conservatorio di Milano s'offerse di suonare con lui.
Partimmo subito, il giovinotto ed io, pieni di zelo. Il cieco signor Zuane ci accolse con gratitudine dignitosa, con grave cortesia da re in esilio, parlando un italiano floscio che affondava ogni momento nelle mollezze del mio dialetto natio. Era insieme comico e triste di udirlo discorrere così solennemente, accompagnando alle parole il gesto ampio e interrompendosi tutto perplesso quando incontrava con la mano il cappello nevicato che il mio compagno gli aveva storditamente posto davanti sul tavolino. Udivamo la signorina Zuane tossire nella camera vicina, aperta, da cui entrava una luce affatto superflua al signor Zuane, affatto insufficiente a noi. La signorina ci pregò, nello stesso morbido linguaggio paterno, di venire a prenderci il lume. La sua voce mi colpì; quando poi vidi lei a letto, credetti proprio vedere i capelli biondi, il delicato viso della signora Fedele.
— Le raccomando tanto papà, signore — mi disse. — Sento che sono così buoni!
Poi alzò il capo dal guanciale e mi accennò di accostarmi a lei.
— La scusi, per carità — mi sussurrò ansiosa. — Conosce Lei qui una signorina veneziana, bionda, che mi somiglia?
— Sì, la signora Fedele.
— Per carità, non la lasci parlare a papà, La supplico a ogni costo! Glielo dica magari a nome mio. A nome della Lisetta, dica. Adesso no, adesso no per carità!
Non si spiegò più di così. Partendomene