Antonio Fogazzaro

Fedele ed altri racconti


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a lei qualche spiegazione.

      Stavo proprio sulla brage e protestai di non volere spiegazioni; ma quegli insistette e la signora mi scongiurò, in silenzio, a mani giunte, con un viso disperato, di lasciarlo parlare. Guardai involontariamente gli altri che intesero e piano piano, molto a malincuore, se ne andarono.

      — Non potevo prendere del denaro guadagnato da lei, capisce — disse lo Zuane. — È mia nipote, l'ho allevata io, l'ho educata io. Una cosa orribile! Mi ha tradito.

      Soffrivo inesprimibilmente, mi pareva d'essere un traditore io stesso, a permettere ch'egli parlasse così davanti a lei; ma ella lo voleva. Aveva voltato il viso alle finestre, adesso. Chi ci spiava dall'altra sala poteva credere che guardasse la luna e la tormenta. Dio, perchè si ostinava a star lì? Le toccai leggermente una spalla. Ella m'indovinò, negò del capo con la stessa muta energia di poc'anzi.

      Lo Zuane tacque un poco, aspettandosi forse qualche domanda. Poi riprese:

      — Quell'anello mi era caro, una volta; adesso no, adesso no!

      Io lo interruppi, gli offersi di accompagnarlo a casa, dove la signorina Lisetta stava forse in angustia. Potrebbe parlarmi per via se volesse.

      — Sì sì — rispose senza muoversi — ma del resto è presto detto. Tutte le miserie che si possono soffrire in terra io le ho sofferte dodici anni perchè questa creatura diventasse artista. Ella lo aveva promesso fin da bambina, prima a Dio poi alla Madonna — ogni artista è credente, signore! — E lo diventava. Grande artista! Io morivo di fame e di consolazione, signore. Ebbene, viene un giovane, un ricco, uno che non sa cosa sia l'arte, uno che dice: ti sposo, ma niente scena, ma niente grandezza, ma niente gloria. E allora si dimentica Dio, si dimentica la Madonna, si dimentica tutto, signor mio, si spezza il cuore a questo vecchio. Non basta.

      — Insomma, signor Zuane — esclamai, non potendo più reggere — è tardi, andiamo.

      — Non basta — prosegui egli alzandosi. — Il marito muore, perchè lassù, capisce, vi è una giustizia.

      La povera signora, sopraffatta, giunse le mani.

      — Dio, questo no! — diss'ella.

      Non potrei raccontar bene ciò che seguì in quel punto. Forse nessuno lo potrebbe. So che lo Zuane gridò, che accorse gente, che vi fu un tafferuglio, che il cieco fu condotto via, che la Fedele mi scongiurò di accompagnarla fuori subito subito, all'aria, alla solitudine.

      La tormenta non soffiava più, ma il freddo era pungente. La guglia del Piz Vogel fumava ancora di neve. Ci avviammo in silenzio dall'altra parte, verso la luna e l'orizzonte basso, largo, tutto dentellato, fra due grandi montagne argentee, di punte nere d'abeti. Di là dalla villetta dell'ingegnere C. faceva meno freddo; la mia compagna rallentò il passo.

      — Mi perdoni — diss'ella — se Le reco tanto disturbo. È la prima e l'ultima volta, sa. Non mi vedrà più, mai più. Domani spero che avrà la carità di fare ancora qualche piccola cosa per me e poi non udrà neppure più il mio nome. Mai più. Fedele è il mio nome di battesimo. Non posso esser altro che fedele.

      Su queste ultime parole la sua voce si abbassò, quasi si spense, come se avessero qualche triste senso nascosto. Le vidi brillare gli occhi di lagrime. «Non mi vedrà più, non udrà più il mio nome». Perchè diceva così? Cosa voleva fare? Mi si stringeva il cuore. Doveva soffrir tanto, pover'anima delicata, e mi si rivelava così pura! Con quel viso, con quella voce, con quel tenero nome insolito, mi pareva una delle creature che si amano in sogno.

      — Mi ha posto nome lui, Fedele — diss'ella. — Ha ben capito, non è vero, ch'è mio padre? Poveretto, non lo ha voluto dire. La vergogna gli pareva troppo grande. Non dico mica di non avere colpa, sa. È vero che avevo promesso a Dio e alla Madonna. Povero papà, forse aveva fatto troppo conto sulle promesse d'una bambina: forse il Signore non ne ha fatto tanto. Ma non voglio mica giudicarlo, povero papà. È la disgrazia nostra, di tutti, che abbia un sentimento così. Io non ho nessuna amarezza con lui. Solo non ho potuto...

      Non seppe reggere al ricordo delle parole dure che più l'avevano offesa. Le mancò la voce.

      — È stata troppo amara — soggiunse dopo un istante, sospirando. — Troppo amara! Perchè lui, caro, gli voleva bene, malgrado tutto, al mio papà, e quel che ho fatto per tornare con il mio papà, me lo ha insegnato lui dal paradiso. Solo non voleva che andassi sul teatro. Il papà credeva che dopo la disgrazia lo avrei accontentato, ma non è mica possibile; bisogna bene che lo ubbidisca più di prima, mio marito, caro. Oramai poi ho perso tutte le speranze che il papà faccia pace. Neanche l'anello della povera mamma è giovato a niente. Ma l'aspettavo, sa, ma volevo pur tentare un'ultima volta. E adesso vorrei pregarla di parlare domani alla Lisetta.

      Le dissi che disponesse pure di me per qualunque cosa.

      — La ringrazi tanto, prima di tutto, la Lisetta — diss'ella. — Ha fatto quello che poteva, poverina, per aiutarmi. Le dica che non le scrivo perchè proprio non posso, e non so neanche se le scriverò più; ma che tutta la roba mia è sua e che le carte e i denari sono a Milano in mano dell'avvocato Benvenuti, via S. Andrea, n. 23. Vuol prender nota?

      Notai nel mio portafogli, al chiaro di luna, il nome e l'indirizzo. Il cuore mi batteva forte, sentivo di scrivere qualche cosa di sinistro, la fine, quasi, di un'esistenza, la fine di quella dolce, bella creatura, tanto giovane, tanto amante, tanto mite con il fanatico furioso che l'uccideva.

      — Ecco — dissi, riponendo il portafogli.

      Eravamo giunti a quella fornace dove si spicca dalla via maestra il sentiero del laghetto.

      — Vorrei andare al lago — diss'ella tranquillamente come se tutto fosse oramai finito in pace; e mi nominò un mio libretto, dove si tocca di questo lago alpino. L'idea di andare al lago a quell'ora, dopo quei discorsi, mi colpì tanto che me le opposi con troppo manifesto orrore. Fedele sorrise un poco. — Torniamo pure — diss'ella; e fatti pochi passi in silenzio, si pose a cantar sottovoce:

      Ah non fia mai che nell'inferno

      Io sia dannata al fuoco eterno.

      Ne fui rassicurato. Solo mi doleva di averle potuto attribuire per un momento quell'idea orribile e d'essermi tradito. Volevo ora domandarle che intendesse fare, e non osavo. Ella non parlava più. Passata la villetta C., mi disse che voleva farmi sapere il suo nome, che suo marito si chiamava Vida, e ch'ella aveva tenuto nascosto questo nome acciocchè suo padre, venendo per caso a udirlo, non fuggisse addirittura da S. Bernardino.

      Giungemmo al villaggio deserto, tutto bianco di luna. Nel porre il piede sugli scalini dell'Hôtel Brocco, mi feci coraggio e incominciai:

      — Lei parte?

      — Domattina.

      — E posso sapere...?

      Fedele esitò.

      — Glielo dirò — rispose a bassa voce — ma non lo ripeta a mia sorella. Me lo prometta! Vado a Marsiglia.

      La guardai, le stesi la mano senza poter parlare. Ella mi diede la sua.

      — So che ci muoio — soggiunse — ma in ogni caso andrei suora.

      Ci parve udir parlare nell'albergo.

      — Domani — diss'ella in fretta — non venga mica a salutarmi quando parto. I suoi amici sono troppo cattivi, mi criticheranno, già, per la mia famigliarità di stasera. Non racconti mica niente, sa. El ghe diga ch'el xe el nostro far, de nualtre veneziane.

      Le strinsi la mano forte forte, con ambo le mie. Fu il nostro muto addio.

      — Dunque — mi disse l'indomani mattina, alla fonte, la signorina Prina, tutta sfavillante d'ironia — glielo avranno ben trovato, quel verso, iersera?

      — Che verso? diss'io.

      — Caro! — esclamò la signorina; e si mise a declamare con un enfasi sarcastica:

      Mi me se inchiava i denti

      Quando te