Grazia Deledda

Dopo il divorzio


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avarizia. Quando in casa c'era molto lavoro chiamava persone del vicinato, spesso anche Giovanna e sua madre, compensandole malamente con derrate avariate. Queste persone erano tanto povere che si contentavano di tutto.

      — Ebbene, come è andata? — chiese, deponendo il fuso e la piccola conocchia sul sedile del portico. Aveva una voce sottile e nasale, due occhi rotondi, chiari, vicini, su un naso finissimo e aquilino, e la bocca ancora fresca e rossa. — Tu piangi, Maria Chicca? Ho visto tornare le due povere donne, ma non ho osato avvicinarmi, perchè stanotte ho sognato che l'avevano condannato ai lavori forzati.

       — Me lo avete già detto, zia Malthina. Ah, no, lo hanno condannato a ventisette anni...

      Zia Martina parve contrariata, non perchè odiasse Costantino, ma perchè credeva infallibilmente ai suoi sogni. Prese la briglia del cavallo, e disse:

      — Se posso vado dalle Era questa sera stessa, ma non so se potrò andarci perchè aspetto un uomo, già servo di Basilio Ledda, che deve entrare al mio servizio. Egli è stato testimonio; credo però sia già tornato da Nuoro.

      — Credo, — disse l'altra andandosene; e appena rientrata dalle parenti cominciò a raccontare che zia Martina era dolentissima, che aveva sognato la condanna di Costantino ai lavori forzati, e che Giacobbe Dejas (questo Dejas povero era cugino in secondo grado dei Dejas ricchi) doveva entrare al servizio dei vicini.

      Giovanna allattava il bambino, guardandolo con dolore, e non sollevò neppure il capo; zia Bachisia invece volle sapere molte cose: se la vecchia Dejas era sola, se filava, se filava al buio, ecc.

      — Senti dunque — disse poi a Giovanna — ella verrà forse stasera.

      Giovanna non rispose, non si mosse.

      — Non odi dunque, anima mia? — gridò la madre stizzita. — Verrà stassera.

      — Chi? — domandò Giovanna, come uscendo da un sogno.

      — Malthina Dejas.

      — Ebbene, che essa vada al diavolo!

      — Chi deve andare al diavolo? — domandò dalla porta una voce sonora. Era Isidoro Pane, un vecchio pescatore di sanguisughe, parente delle Era, che veniva a far le sue condoglianze. Alto, con una lunga barba giallastra, occhi azzurri, un rosario d'osso alla cintura, un lungo bastone e un involto in cima al bastone, zio Isidoro sembrava un pellegrino: era il più povero ed il più savio e tranquillo degli abitanti di Orlei. Quando voleva imprecare diceva: —

      — Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe!

      Egli era stato grande amico di Costantino, col quale tante volte aveva cantato in chiesa le laudi sacre; ed anzi le Era lo avevano designato come testimonio di difesa, perchè nessuno meglio di lui poteva dire le buone qualità dell'accusato; ma era stato scartato. Che mai contava, davanti alla giustizia grande e potente, un povero pescatore di sanguisughe?

      Appena lo vide, Giovanna s'intenerì e ricominciò a singhiozzare.

      — Sia fatta la volontà di Dio, — disse Isidoro, poggiando al muro il suo bastone. — Abbi pazienza, Giovanna Era, non disperare di Dio...

      — Voi sapete? — chiese Giovanna.

      — Ho saputo. Ebbene? Egli è innocente, e ti dico che sebbene oggi l'abbiano condannato, domani può risultare la sua innocenza.

      — Ah, zio Isidoro, — disse Giovanna, scuotendo il capo, — non credo più alla vostra fiducia. Ci ho creduto fino a ieri, ma ora non posso crederci più.

      — Tu non sei buona cristiana; questi sono gli insegnamenti di Bachisia Era...

      Zia Bachisia, che vedeva di mal occhio il pescatore, e temeva sempre che egli le lasciasse in casa dei brutti insetti, si volse adirata, e stava per ingiuriarlo, quando entrò un altro uomo, poi delle donne, poi altri uomini ancora.

      In breve la casetta fu piena di gente, e Giovanna, sebbene si sentisse stanca anche di piangere, credè suo dovere singultare e strillare disperatamente.

      Zia Bachisia attendeva la ricca vicina, ma costei non venne: venne invece Giacobbe Dejas, quel tal servo che doveva contrattare con zia Martina. Egli era un allegro uomo sulla cinquantina, di aspetto comune, piuttosto basso e scarno, sbarbato, senza sopracciglia e senza capelli, con due piccoli occhi obliqui molto furbi e d'un colore incerto tra il verde e il giallo. Da venti anni servo di Basilio Ledda, aveva testimoniato in favore di Costantino raccontando i maltrattamenti che Basilio usava al nipote, e come il vecchio avaro, che malmenava anche i servi e le donne, il giorno prima di morire avesse bastonato e preso a calci lui, Giacobbe Dejas.

      — Malthina Dejas ti aspetta, — gli disse zia Bachisia. — Va.

      — Che il diavolo le scortichi il naso, io ci andrò, — rispose Giacobbe, — ma ho paura di cadere dalla padella nella brace. Essa è avara più di quanto lo fosse colui.

      — Se essa paga, non devi giudicare le sue azioni, — disse una voce sonora.

      — Ah, siete lì, zio Isidoro, — disse Giacobbe con voce di scherzo sprezzante. — Ebbene, come vanno i vostri affari? Son ben punte le vostre gambe?

       Isidoro si guardò le gambe avvolte in istracci (egli le immergeva nell'acqua stagnante, le sanguisughe vi si attaccavano, e così egli le pescava), poi rispose con dolcezza:

      — Questo non deve importarti. Ma non sta bene che tu imprechi la donna della quale mangerai il pane.

      — Io mangerò il mio pane, non il suo. Ma questi sono affari nostri. Ebbene, Giovanna, fa coraggio, che diavolo! Ricordi la storiella che ti ho raccontato mentre tornavamo da Nuoro? Fa da savia, via, per questo marmocchio. No, Costantino non morrà in reclusione, te lo dico io. Dammi il bambino.

      E si chinò, ma visto che il bambino dormiva, si rialzò e mise un dito sulle labbra.

      — Zia Bachisia, — disse (egli dava del voi e dello zio anche ai più giovani di lui), — fatemi il piacere, mandate a letto vostra figlia. Essa non ne può più. Brava gente, — disse poi agli astanti, — facciamo una cosa, andiamocene via.

      A poco a poco tutti se ne andarono. Allora zia Bachisia prese lo sgabello dove erasi seduto Isidoro Pane, lo portò fuori e lo pulì: poi rientrò e dovette scuoter Giovanna, caduta in una specie di sonno, per farla andare a letto. La giovine spalancò gli occhi rossi e vitrei, e s'alzò, col bimbo fra le braccia.

      — Va a letto, — le impose la madre.

      Ella guardò la porta e mormorò:

      — Ah, egli non torna; egli non tornerà mai più. Mi pareva di aspettarlo...

      — Va a letto, va a letto... — disse la madre, con voce viepiù rauca.

       La spinse, prese il vecchio lume d'ottone, aprì l'uscio. La casetta era composta della cucina col solito focolare di pietra nel mezzo ed il forno in un angolo, e due stanze miseramente arredate. Il letto di Giovanna era di legno, alto e duro con una coperta di percalle rosso. Zia Bachisia prese il piccolo Martino, che pianse un pochino senza svegliarsi, e lo depose sul letto, cullandolo con le mani finchè Giovanna si fu coricata.

      E quando Giovanna si fu coricata, a testa nuda, con le belle treccie annodate intorno al capo come una antica romana, la madre la coprì con cura e uscì via. Appena uscita lei, la giovine rigettò la coperta e cominciò a lamentarsi incoscientemente. Era rotta dal dolore e dalla stanchezza, aveva sonno ma non poteva addormentarsi completamente: visioni confuse le passavano per la mente; e quasi non bastasse la sua angoscia morale, sentiva, a intervalli, acutissimi dolori ai denti e alle tempia. Ogni volta che questo spasimo l'assaltava, le pareva che le venisse addosso un'ondata d'acqua bollente, causandole un terrore indefinibile. Fu una notte orribile, orribile.

      Dalla stanzetta attigua, di cui lasciò l'uscio aperto, zia Bachisia udiva Giovanna lamentarsi e delirare, rivolgendo a Costantino parole d'amore insensato, e minacciando di morte i giurati che l'avevano condannato.

      Zia Bachisia vegliava, aveva la mente lucida, la visione netta di tutto ciò che era accaduto e che doveva accadere;