Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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vogliate supporre che possa esser stato uno del personale!

      I due apparvero schiantati. La conclusione era logica. Crestansen non poteva essersi cloroformizzato da solo, per poi cacciarsi uno spillone nel cuore.

      — Sta bene. Vedremo. Intanto, preparatemi l’elenco di tutti gli ospiti dell’albergo da venerdì a oggi… E sappiatemi dire se qualcuno di essi si è allontanato.

      — Non vorrà mica!… – gridò il giovanotto, impallidendo.

      — Farò quel che debbo – proferì freddamente De Vincenzi e si alzò. – Mi faccia accompagnare al quarto piano.

      Fu lo stesso direttore che lo accompagnò, mentre il portiere tornava a rinchiudersi nel suo ufficio, visibilmente scosso dall’idea che gli ospiti dell’Hôtel d’Inghilterra potessero venir sottoposti a un interrogatorio della polizia.

      Sul pianerottolo del quarto piano c’era Sani.

      — Il dottore e Kruger ti aspettano nella camera…

      — Grazie. Tu fermati qui – gli disse il commissario. – Avrò bisogno di te fra poco.

      Il corridoio sul quale si apriva la camera n. 143 era lungo. De Vincenzi contò le porte: otto da un lato e otto dall’altro. Il 143 era la seconda a destra, venendo dal pianerottolo. Il corridoio terminava a cul di sacco. Dall’altra parte delle scale se ne vedeva uno uguale. Trentadue camere su quel piano.

      — Tutte occupate?

      — Tutte. Abbiamo messo quassù i viaggiatori della carovana. Sono una quarantina… Con le coppie nelle camere matrimoniali, siamo riusciti ad alloggiarli tutti…

      De Vincenzi s’era fermato davanti all’uscio della camera del delitto. Tutte le porte erano di noce scura. Uno spesso tappeto in terra. Una grande pendola col basamento monumentale in fondo al corridoio e tra una porta e l’altra scanni intagliati. Il corridoio era illuminato da due lampade di ferro battuto, appese al soffitto. Un lusso pesante e severo… Tutta clientela scelta… Rango, classe superiore!… A ogni modo, su quel piano erano soltanto quelli della carovana. Poco probabile che uno di essi…

      — Che cos’è questa carovana?

      — Cook. Proviene da Londra ed è diretta in Oriente. È giunta giovedì e ripartirà domattina… Oh! gente modesta… Debbono essere impiegati e dattilografe… C’è un pastore non conformista con la moglie e due figli…

      — Ho capito.

      E De Vincenzi cancellò subito di colpo tutti i membri della carovana dai possibili sospetti. Il non farlo avrebbe voluto dire una perdita assolutamente inutile di tempo.

      Girò la maniglia e aprì.

      — Non ho più bisogno di lei. Grazie. Mi mandi la cameriera, il cameriere, il facchino.

      E dolcemente richiuse la porta dietro di sé.

      Il dottore, che era lo stesso di Piazza Mercanti, gli andò incontro e lui guardò il biondo e timido Kruger, che inginocchiato in terra soffiava polvere di grafite sopra una valigia di cuoio scuro.

      La camera era ammobiliata con la medesima severità del corridoio e dava subito un’impressione di tetraggine, per quanto la finestra fosse spalancata.

      — Un momento, dottore! Kruger, chi è entrato qui dentro pel primo?

      Il giovane si sollevò e volse verso il commissario il volto infantile, coperto di rossore.

      — Siamo entrati tutti assieme, cavaliere. Ma nella stanza si trovava già il commissario Micheli.

      — La finestra era chiusa?

      — Sì, cavaliere. Persiane e vetri. La camera era illuminata dalla luce elettrica, che aveva accesa il commissario. Sono stato io ad aprir la finestra. Ma prima ho fatto tutti i rilievi. Una quantità d’impronte confuse sul telaio e sulla maniglia. Niente da tirarne fuori!

      — Lei ha sentito odor di cloroformio?

      — Ma questo son qui io per dirglielo, commissario!

      Il dottore s’impazientiva. Anche per lui due cadaveri nella stessa mattina erano troppi.

      — Mi scusi, dottore… – fece De Vincenzi, sorridendo. – So che Kruger osserva tutto.

      — Uhm! – mugolò il medico. – Vediamo di sbrigarci. Guardi. Il cadavere si trovava press’a poco come lo vede adesso. Data la natura della ferita che l’ha ucciso, io ho dovuto appena toccarlo. Sul volto aveva quell’asciugatoio piegato, che lo bendava.

      E gl’indicò sul tavolo un asciugatoio piegato per lungo. De Vincenzi lo prese e sentì alle narici una zaffata, per quanto leggera, acre e nauseante di cloroformio. Era un asciugatoio dell’albergo e recava in un angolo, a ricamo, lo stemma d’Inghilterra e le cifre: H. d’A.

      De Vincenzi lo rimise sul tavolo e fece qualche passo verso il cadavere. Crestansen era disteso sul letto, che appariva completamente rifatto, con la coperta di seta a fiorami e i cuscini sotto la coperta. L’uomo giaceva composto con le braccia incrociate sul ventre, le gambe distese e unite. Anche qui, come per Giobbe Tuama, chi aveva ucciso si era preoccupato di dare al cadavere un aspetto dignitoso, da camera mortuaria. Il medesimo assassino, indubbiamente! Ma Crestansen, a differenza del vecchio sulla piazza, aveva gli occhi chiusi e un’espressione di perfetta serenità sul volto rigido. Strano volto di uomo! Un potente naso a rostro, la bocca dura dalle labbra sottili, la mascella quadrata, gli zigomi salienti. Gli occhi chiusi dalla morte s’incavavano nel profondo delle vaste orbite, sotto l’arco sporgente delle sopracciglia grigie. I capelli eran tosati, dando rilievo al cranio a punta.

      De Vincenzi interrogò con lo sguardo il dottore.

      — Il più atroce delitto della mia carriera! – rispose questi, facendo una smorfia di disgusto. – Non avevo mai assistito a un tale esempio di raffinatezza criminale! Guardi!

      Si avvicinò al letto, scostò il panciotto, alzò la camicia. De Vincenzi vide un punto nero sulla carne bianca. La capocchia di uno spillone. E una gocciolina di sangue raggrumato, una sola gocciolina, nerastra, cristallina.

      — E semplice, no? Ma è spaventoso! Per uccidere un uomo in tal modo ci vuole l’insensibilità e la crudeltà di una iena. O l’incoscienza di un folle. La ricostruzione del delitto è presto fatta. L’assassino deve aver sorpreso la vittima alle spalle. Era certamente conosciuto da colui che voleva uccidere… un amico forse… perché altrimenti non avrebbe potuto operare come ha fatto. Gli ha messo di colpo l’asciugatoio impregnato di cloroformio sotto il naso, rovesciandolo all’indietro e costringendolo all’immobilità, fin quando non lo ha visto addormentato. Calcoli pure che deve averlo tenuto a quel modo almeno dieci minuti, se non di più. Poi, sentitolo inerte, lo ha trasportato sul letto, gli ha coperto il volto con l’asciugatoio, perché l’azione del cloroformio non cessasse, e gli ha conficcato lo spillone tra le costole, lentamente, cercando il cuore, traforandolo, immobilizzandolo per sempre… Ecco!

      De Vincenzi si passò la mano sulla fronte e la ritrasse umida di sudor freddo. Dalla bocca gli uscì un suono tronco, rauco. Si sentiva soffocare, invaso da un impeto d’indignazione inesprimibile. Qual era la belva umana che poteva uccidere, così, con quella fredda determinazione, cercando materialmente il cuore della vittima con la punta di uno spillone?

      Il dottore lo guardava.

      — Incredibile, eh! Ho letto in una rivista di criminologia che adesso in America i cosidetti gangsters hanno introdotto questo metodo per uccidere. Non si può negare che sia silenzioso e sicuro!

      Kruger aveva abbandonato la valigia e si teneva ritto in mezzo alla stanza, ascoltando.

      De Vincenzi fece qualche passo per allontanarsi da quello spettacolo.

      — Ha trovato nulla lei, Kruger?

      — Niente! Sulla valigia si vedono impronte, ma sono quelle del morto o quelle del commissario Micheli, che l’ha aperta e frugata poco fa…