Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


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Piazza Mentana, in Milano. Egli abita in via Bramante, 9. A vostra richiesta potremo continuare le indagini ed esservi precisi circa la vita che conduce. Per un servizio continuo di pedinamento, manteniamo i prezzi di tariffa comunicativi».

      Magnifico! Quel foglio gettava una luce nuova su tutto l’affare.

      De Vincenzi lo piegò lentamente e lo rimise nella busta. Così, questo Giorgio Crestansen era venuto a Milano per trovare Giobbe Tuama, il quale si chiamava Jeremiah Shanahan – o per lo meno era da lui conosciuto con questo nome – e, poco dopo il suo arrivo, Tuama veniva strangolato e lo stesso Crestansen soppresso!…

      Si alzò e intascò la lettera. Micheli e Sani gli si avvicinarono.

      — Interessante… Questa lettera ci darà, forse, la chiave del mistero.

      — Non hai più bisogno di me, vero? – gli disse Micheli, che aveva un gran desiderio di andarsene. – Nella camera io non ho toccato nulla e il giovane Kruger avrà potuto fare tutti i rilievi che avrà voluto. Su ci sono anche due agenti.

      — Sì, grazie.

      — Ciao! – e Micheli scomparve.

      De Vincenzi andò verso l’ufficio di direzione dell’albergo. Gli si fece incontro un giovanotto biondo, dalle membra armoniosamente atletiche, messe in rilievo da una elegante redingote attillatissima.

      Guardò De Vincenzi con aria afflitta e fece un gesto di desolazione.

      — Questa ci mancava! E con l’albergo pieno da scoppiare… È arrivata ieri una carovana d’inglesi… Una bella pubblicità davvero, per noi!…

      — Lei è?

      — Il figlio del proprietario. Sono io il direttore dell’albergo… Senta, commissario… La scongiuro! Cerchi di dar meno pubblicità possibile alla cosa… Ne va del nostro onore…

      — Che camera?

      — Il numero 143, al quarto piano. Quel… disgraziato… quel signore arrivò l’altro ieri…

      — Venerdì?

      — Sì, venerdì nel pomeriggio. L’albergo era già pieno… Gli dovemmo dare quel che avevamo… una camera all’ultimo piano di quelle che di solito diamo ai domestici…

      De Vincenzi si volse a Sani.

      — Sali su. Prega il dottore e Kruger di aspettarmi. Il fotografo mandalo pur via…

      Sani si avviò alle scale, che si aprivano in fondo. Il direttore si precipitò.

      — Venga qui… Prenda l’ascensore…

      Un lift sorse come per incanto di dietro una colonna. La particolarità di quel luogo era il lusso severo e pesante e una disposizione dell’ammobiliamento e dei servizi fatta per togliere ogni impressione d’albergo. Il vestibolo sembrava un salotto e, a differenza di tutti gli altri alberghi, non vi si vedeva il banco del portiere, che aveva il suo santuario in una piccola stanza, la cui porta non differiva dalle altre e non recava tabelle e indicazioni.

      De Vincenzi entrò nella direzione. Il giovanotto lo seguiva.

      — Adesso, mi dica – e De Vincenzi sedette.

      — Che cosa vuole che le dica? È spaventoso. Ne siamo tutti sconvolti. All’Hôtel d’Inghilterra! La casa più severa di Milano, frequentata dai più bei nomi d’Europa… Ah! lo so quel che lei vuol dirmi! In questi ultimi tempi abbiamo dovuto accettare qualche carovana anche noi… Che vuole? La crisi!

      — Mi chiami il portiere, per favore. Immagino che sia stato lui a ricevere il viaggiatore, quando giunse.

      Il giovanotto premette un campanello. Poi continuò a tenere la mano sul quadro dei bottoni elettrici.

      — Vuole che le faccia venire anche il personale del quarto piano? E stata la cameriera a fare la scoperta.

      — No. Li interrogherò di sopra…

      L’altro ebbe un gesto.

      — Avrei preferito… Se lei può fare in modo che i clienti non si accorgano… È molto spiacevole… Nessun assembramento pei corridoi, se le è possibile…

      Entrava il portiere. Era un personaggio solenne, degno dell’Hôtel d’Inghilterra. Si guardò attorno e ostentatamente si rivolse al direttore:

      — Desidera me?

      — Venite qui, voi. Sono io che vi desidero. Ditemi tutto quello che sapete del signor Crestansen.

      Il portiere si degnò avvicinarsi al commissario.

      — Non potrò dirle molto. L’abitudine della casa…

      — Lasciate andare l’abitudine della casa. Fu venerdì che giunse?

      — Appunto. Verso le diciotto. Molto probabilmente col treno di Genova. Scese dal tassi e chiese una camera. Gli proposi il 143. Non ne avevo altre e avvertii il signore che era una camera modesta… Ricordo che gli consigliai anche di rivolgersi a un altro albergo… Avevo veduto subito che non era un cliente per l’Hôtel d’Inghilterra… Non avrei potuto dargli un’altra camera in tutti i casi, ma era evidente che quel signore non apparteneva al nostro genere.

      — Che cosa intendete per vostro genere?

      Il portiere ebbe uno sguardo di commiserazione.

      — Il rango… la classe… dei nostri clienti è assolutamente superiore.

      — E lui? – chiese De Vincenzi con un leggero sorriso.

      — Mancava di distinzione – decretò l’importante personaggio. – Son cose che non si spiegano. Aveva un vestito di grossa stoffa e di taglio sgraziato, la catena dell’orologio troppo vistosa, un anello con un brillante smisurato… E poi il volto! Tratti fortemente segnati… pelle abbronzata… rughe profonde… E un modo di parlare e di muoversi assolutamente volgare… Doveva certamente disporre di mezzi, perché subito trasse il portafogli e volle depositare nella cassa della direzione diecimila dollari… Ma non è il denaro che può dare la distinzione!…

      — Ho capito. Andate avanti.

      — Non c’è altro da dire. Lo feci accompagnare al 143… Quasi subito scese di nuovo e mi chiese se via San Paolo fosse distante… avrebbe voluto prendere un’auto… Gli dissi che era qui dietro… e gli feci indicare il cammino da un lift…

      — Il lift vide dove andava?

      — Non mi sono curato di chiederglielo; ma si può chiamare il ragazzo…

      — Non importa… So benissimo dove andava…

      Il portiere sollevò le sopracciglia, incredulo. De Vincenzi sapeva, infatti, che l’Agenzia «Radio» aveva i suoi uffici in via San Paolo.

      — Ieri Crestansen che fece?

      — Come posso saperlo? – esclamò l’uomo, allargando le braccia con un gesto teatrale. – Nella nostra casa è legge la discrezione!

      — Avrà notato – interloquì il figlio del proprietario – che il portiere non ha il suo banco nel vestibolo. Data la nostra clientela, ci siamo sempre preoccupati di conferire all’ambiente un carattere di casa privata…

      — Capisco – troncò il commissario. – E iersera? È venuto qualcuno a chiedere di Crestansen?

      — Può darsi – rispose il portiere. – Per quanto un visitatore sarebbe stato notato. Nel vestibolo si trova sempre qualche lift e non avrebbe fatto passare uno sconosciuto, senza chiedergli dove si recasse e senza condurlo da me…

      — Eppure, Crestansen è stato ucciso!

      Il portiere fece un altro gesto d’olimpica indifferenza, mentre il direttore si agitava nervosamente.

      — Si deve ammettere, dunque, che a compiere l’assassinio sia stato uno