per suo conto non vide che un’ombra nera. Non guardava neppure, del resto. Camminava. Procedette dalla piazza per via Agnello, nella nebbia, lentamente. Andava.
L’uomo, come se avesse riconosciuto colui col quale s’era urtato, si voltò per seguirlo. Ma subito si fermò, indeciso, trasse l’orologio e, accostatoselo agli occhi, vide che era la mezzanotte passata da qualche minuto. Alzò le spalle e tornò sui suoi passi, dirigendosi in fretta verso il grande portone della Questura, dentro cui entrò.
«E allora, cavaliere?»
«Ah!… Che vuoi?»
«C’è niente?»
«Hai domandato a Masetti?»
«Perché?… A quest’ora la “squadra” è ancora aperta?»
«Dev’essere tornato Masetti… L’ho mandato a Porta Ticinese. Senti un po’ quel che ha fatto.»
«Furtarelli, De Vincenzi… E avrà trovato i tre braccialetti dal ricettatore.»
La rotonda faccia di De Biasi, apoplettica, sogghignava.
«È la sua specialità… trovare i braccialetti dai ricettatori…»
«E la tua qual è, De Blasi? L’astinenza?…»
«Non mi vanterei, certo, d’essere un bevitore d’acqua e limone, come te…»
De Vincenzi alzò le spalle, sorridendo. Quel giornalista, tondo e rosso come un segnale di via ingombra, gli piaceva. Con quella rotonda faccia da avvinazzato, era sveglio e pronto. Il migliore senza dubbio del Sindacato dei reporters e fargliela non era facile.
«Ognuno ha le sue debolezze, De Blasi…»
«La mia non è una debolezza; è una forza. Senti un po’…»
Entrò nella stanza e chiuse la porta dietro di sé. De Vincenzi si alzò di scatto, nascondendo sotto un pacco di pratiche il libro che stava leggendo.
«Ho sentito! Se tu ti metti a sedere, te ne vai domattina e io la tua teoria sulle virtù molecolari del vino la conosco…»
De Blasi non si scompose, guardò la stufa e fece una smorfia.
«Quando vi cambieranno le stufe, qua dentro? Quella lì appesta. Se tu credi che io potrei resisterci… Hanno imbiancato il cortile, hanno cambiato i mobili su dal Questore… Hai veduto i divani rossi?… Un po’ duretti; ma per adesso senza macchie d’unto. Però, a voialtri le stufe vecchie e la carta sbiadita alle pareti non le cambiano, eh?… Sei di “notturna” stanotte?»
«Senti, De Blasi…» e il commissario, girando attorno alla tavola, si avvicinò al giornalista. «Tu sei simpaticissimo; ma io per un’ora o due desidero rimaner solo… Vattene a trovar Masetti, vattene al “Pilsen”, vattene in Galleria…»
«Con la nebbia e tre gradi sotto zero!… Sarai matto!…»
«No, al “Pilsen” c’è caldo… E poi tu fai presto a riscaldarti…»
«Leggevi?»
De Vincenzi lo spingeva verso l’uscio e De Blasi, pur lasciandolo fare, gli indicava il mucchio delle pratiche sul tavolo…
«Hai sepolto il tuo vizio sotto i reati e i delitti! Quanti ladri e quanti ricettatori pesano adesso sopra Pirandello?»
«Vattene! Non è Pirandello.»
«Sì, me ne vado. Ma è vero che studi la psicoanalisi? Me lo ha detto Ramperti… Un giorno di questi mi devi prestare Froind… Si dice così?… Chi è Froind?…»
«Un signore, che giustificherebbe tutti i tuoi peccati, dicendo che è di notte che te li sogni…»
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«Curioso!… Ma perché hai fatto il poliziotto, tu, De Vincenzi?»
«Per avere il piacere di arrestarti, un giorno di questi. L’ubriachezza molesta è contemplata dal codice…»
«Uhm!… Quando mai mi hai veduto ubriaco, tu?… Vieni al “Pilsen” più tardi?… Oppure da “Cassè” alle quattro?»
«Sì, da “Cassé”… Arrivederci.»
Chiuse la porta, mise un legno nella stufa e aprì il tiraggio. Per fumare, fumava, quella stufa. Si guardò attorno. La stanza dell’ufficio di notturna era squallida. Sul tavolo bruciacchiato dalle sigarette e che perdeva qua e là l’impellicciatura, coperto quasi dagli stampati, dai moduli, dalle cartelle, il telefono tutto nuovo e lucente, sembrava un oggetto di lusso messo lì per isbaglio. O anche una macchinetta chirurgica.
Tornò a sedere, prese il libro, sotto il pacco delle carte.
Non era Freud. Era Lawrence. Le serpent à plumes. I sensi…
Aprì il cassetto e toccò altri due libri: l’Eros di Platone e Le epistole di San Paolo.
Si rovesciò sulla sedia e guardò il soffitto: perché mai aveva fatto il commissario di Pubblica Sicurezza, lui?…
Ebbe un sussulto e gridò nervosamente:
«Avanti!» richiudendo in fretta il cassetto. «Tu!… E che vieni a fare a quest’ora?…»
Alto, magro, elegantissimo, col frak sotto la pelliccia e la tuba in testa, Giannetto Aurigi entrò in fretta, si tolse la tuba e rimase in piedi davanti al tavolo, fissando De Vincenzi.
Aveva gli occhi brillanti, stranamente lucidi, il volto esangue, contratto, scarno.
Sorrideva e, nel sorriso, le labbra sottili sparivano, sicché la bocca sembrava un taglio.
Quel pallore e i pomelli rossi colpirono De Vincenzi.
«Freddo?»
«Nebbia! Da piazza della Scala non si vedono le lampade ad arco della Galleria… Aghi sulla faccia e le dita intirizzite…»
De Vincenzi lo fissava curiosamente, interessato.
«Dentro la “Scala” il sole d’Egitto sui flabelli e sulla gloria dei Faraoni… Subito fuori, il vigile, che batte i piedi…»
Schiacciò il gibus, che aveva tra le mani. Si guardò attorno e lo andò a posare sul piano di una specie di scaffale, pieno di cartelle legate.
Si tolse la pelliccia e l’attaccò a un chiodo. Poi, lentamente, fregandosi le mani bianche lunghe affusolate, andò a sedersi.
«E tu sei venuto a San Fedele?!»
«Eh?…»
Si era astratto e la domanda lo aveva fatto sobbalzare.
«Ma sì, non è la prima volta… Sapevo che eri tu di servizio…»
«Tutte le sere sono di servizio qui o di là e tu da molto tempo non venivi…»
«Già… Ma non perché non pensi a te. Mi sei caro, tu! Di tutti i compagni di collegio il più caro, anche se…»
Si fermò, preso come da un leggero impaccio o perché il suo pensiero aveva cambiato corso. Rise. Si guardò attorno.
«È triste, qui…»
«Un ufficio di Questura come un altro. Ma tu dicevi: anche se… Anche se sono diventato funzionario di Polizia, vero?»
«Dev’essere una vita da cani!… Mah! L’inclinazione naturale! Ci sono i ladri. Natura anche quella!»
«Già…»
De Vincenzi macchinalmente toccò il libro, che aveva dinanzi. Per una inconscia reazione, di cui non si rese conto, aggiunse:
«I ladri e gli assassini…»
«Che c’entra?»
E la voce di Aurigi suonò stridula, quasi