Augusto De Angelis

Augusto De Angelis: Tutti i Romanzi


Скачать книгу

era polvere da sparo, cordite… Eppure per le scale non avevano sparato, ché se no avrei trovata tutta la casa sveglia… Al secondo piano due usci, uno chiuso, l’altro aperto… Questo qui… E si vedeva la sala d’ingresso illuminata. Sulla porta, il nome di Giannetto Aurigi. Entro. Lì, nell’ingresso, niente, ma tutte le luci accese. Giriamo. Laggiù una porta chiusa. La camera del domestico, evidentemente. Vuota. C’era il panciotto a righe azzurre del cameriere e i pantaloni e la giacca buttati sul letto. Da quella parte, pure sull’ingresso, la cucina. Vuota. Lì, la camera da pranzo, buia, l’unica buia, e vuota. Qui, nessuno. Lì, un altro salottino e steso per terra, contro il divano, un uomo morto.»

      Aveva parlato in fretta, animandosi, e si fermò per riprendere fiato. De Vincenzi lo ascoltava e cercava di seguire le parole sue e di non pensare a tutto quel tumulto di sensazioni e di sentimenti che l’agitava.

      Maccari riprese:

      «Un uomo morto… Un foro di pallottola alla tempia… Un filo di sangue sul volto. L’uomo era in frak. Lo frugo…

      Si cercò nelle tasche. Tirò fuori un piccolo portafogli di marocchino verde. Lo palpò un poco e poi lo tese al collega.

      «Eccotelo… Questo è il suo portafogli. Piccolo per via del frak. Dentro ci sono cinquecento lire e sette o otto biglietti da visita.»

      De Vincenzi aveva preso la busta di cuoio verde e l’aveva aperta. Senza fretta. Senza curiosità. In lui si era creato insensibilmente uno stato d’animo strano: doveva vedere, voleva vedere, e quasi non poteva o, per meglio dire, ritardava i movimenti per farlo, come se volesse di conseguenza ritardare l’effetto di essi.

      «Mario Garlini!»

      Aveva trovato i biglietti da visita per primi e aveva letto il nome. Un sussulto lo fece sobbalzare.

      «È un agente di cambio…»

      «Era, vuoi dire. Adesso è un defunto. Sì, proprio così, era un agente di cambio. Ma era anche qualche cosa di più. La banca Garlini è sua. Si parla di trenta o quaranta milioni suoi, di patrimonio.»

      Maccari alzò le spalle e scosse la testa. Trenta o quaranta milioni: quanti! Lui non li avrebbe mai visti. Ma quell’altro non li poteva vedere più. In fondo, non c’era differenza tra loro, adesso. Lui viveva senza tutti quei milioni e quindi non viveva. L’altro era morto e i milioni non erano più suoi. Era triste quella sera, Maccari, e concluse tra sé: siamo morti tutti e due.

      Ma ad alta voce disse soltanto:

      «Bah! Adesso non può più servirsene.»

      Tanto per dir qualcosa, De Vincenzi fece una domanda, che era la più semplice che potesse fare, per cominciar le indagini.

      «Segni di lotta?»

      «Nessuno. Neppure una sedia rovesciata. Deve essere stato colpito mentre era seduto. È scivolato col corpo in terra.»

      «L’arma?»

      «Niente! Se non l’hanno nascosta in qualche luogo della casa, il che mi sembra poco probabile, se la sono portata via. Così, si spiegherebbe anche l’odore di polvere per le scale e questo vorrebbe dire che, appena fatto il colpo, chi ha sparato è fuggito.»

      «E poi?»

      «E poi… Che vuoi?… Subito ho sentito che l’affare era serio e non soltanto per quei trenta o quaranta milioni del morto. C’è qualcosa che non canta bene in tutto questo. Non mi domandare che cosa, perché non lo so. È un’impressione mia. Ma così forte che, dopo aver telefonato al medico, ho subito telefonato a te. Sbrigatela tu!… Giacché posso, io non voglio occuparmene…»

      De Vincenzi si alzò. Mormorò, tanto per seguire la logica di Maccari:

      «Bah!…»

      Ma fece uno sforzo per liberarsi da quell’intorpidimento, da cui si sentiva invaso, e continuò:

      «Non hai fatto svegliare i portinai? Non hai suonato alla porta dell’appartamento vicino?»

      «Niente. Però avrai visto: il portone è piantonato e su questo pianerottolo c’è un agente.»

      «Ho visto…»

      Fece un movimento brusco e deliberatamente andò verso l’uscio di sinistra, quello che dava nel salottino. Guardò il morto e non ne ricevette nessuna impressione. Soltanto chiese a se stesso, quasi con rancore verso quel cadavere: «Perché è morto?…» Era una domanda senza risposta, naturalmente. Ma in certo modo una risposta c’era e De Vincenzi la formulò a se stesso, voltandosi verso il collega ad osservargli:

      «Era giovane, ancora…»

      «Trentacinque o trentasei anni. Giovane.»

      «L’hai frugato completamente?»

      «No, per non muoverlo. Aspettavo il dottore.»

      De Vincenzi tornò a guardar dentro il salottino. Era un salottino banale: un divano azzurro e due poltrone; un tavolo, una consolle, qualche quadro, nessuna fotografia. In fondo, di faccia, un’altra porta. Non volle traversar quel salotto subito.

      «E quella porta?» chiese.

      «La stanza da letto.»

      «Illuminata?»

      «Sì.»

      «Il letto?»

      «Fatto. Con la piega alle lenzuola e il pigiama disteso e pronto. È chiaro che non sì è coricato.»

      «È l’ultima camera dell’appartamento, quella?»

      «No. Un’altra porta. Era chiusa. Ho appena guardato: il bagno. M’è sembrato vuoto.»

      Il brigadiere Cruni con l’agente Rossi erano rimasti sulla porta, in anticamera. Ma guardavano e ascoltavano. De Vincenzi sentì quasi, in quel momento, il peso del loro sguardo addosso a sé e chiamò subito:

      «Cruni!»

      Il brigadiere, con un piccolo balzo di soddisfazione, avanzò.

      «Andate a vedere nel bagno.»

      Cruni vi si precipitò.

      De Vincenzi si volse a Maccari.

      «Fuori, per la nebbia, le strade sono bagnate. Hai trovato tracce di passi?»

      L’altro indicò il pavimento:

      «Non vedi da te? Niente!… Venuti in auto, si capisce…»

      Tra i due si fece il silenzio.

      Maccari si abbottonava il pastrano, accingendosi ad andarsene. De Vincenzi si tolse il suo. Troppo caldo in quell’appartamento: neppure il cadavere nella stanza vicina era riuscito a raffreddarlo. C’era un’aria pesante, bruciata: l’aria dei termosifoni troppo bollenti, che non mandano vapore e che lo assorbono. Aridità. Eccolo il senso! Era un senso di arido, che De Vincenzi si sentiva in bocca. Anche tra le giunture delle dita aveva quella sensazione. Voleva reagire. Avrebbe certo continuato ad interrogare Maccari, se in quel momento non si fosse sentito suonare il campanello e dall’ingresso una voce che diceva: «Aprite. C’è il dottore.»

      Maccari e De Vincenzi si scossero.

      «Ha fatto presto!» osservò Maccari.

      Lui avrebbe preferito che il dottore avesse ancora tardato qualche minuto. Non voleva farsi prendere nell’ingranaggio di quell’inchiesta.

      Il dottore comparve, quasi di corsa. Era giovane, magro, con il naso aquilino e tagliente come un rostro, e gli occhiali. Sembrava ancora uno studente, che non mangiasse tutti i giorni. Aveva una busta nera sotto il braccio. Doveva essere quello uno dei suoi primi servizi comandati. Uno dei suoi primi delitti. Un cadavere da studiare. Sentiva tutta l’importanza della cosa e di sé. Si vide davanti quei due e andò loro incontro con la mano tesa.

      «Buona notte, signori… Dottor Sigismondi, della Guardia medica di via