Kristen Strassel

Incantesimo Di Mezza Estate


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e feci scattare l’accendino. Il legno assorbì il fuoco ma non si accese. Provai di nuovo, ma continuava a succedere la stessa cosa. Ma che diavolo? Sarei stata in grado di diagnosticare una malattia potenzialmente mortale osservando un campione di sangue, ma non riuscivo ad accendere un fuoco.

      Così feci quello che avrebbe fatto qualsiasi donna abituata a contare solo sulle sue forze. Cercai le istruzioni su Google.

      «Cosa stai facendo?» chiese una voce ricca e setosa come la notte che era calata senza che me ne accorgessi. Saltai per aria e quasi atterrai sul sedere nella buca per il falò. Non avevo sentito Chance arrivarmi alle spalle.

      «Cerco di accendere un fuoco.» Mi alzai e mi pulii i jeans sporchi di terra.

      I suoi occhi. Brillavano dello stesso colore del cielo appena prima del tramonto. Quell’uomo era davvero sbalorditivo, anche al buio. Forse anche di più, perché aveva tanti segreti e c’erano molte cose che non sapevo sulla sua vita.

      Scosse la testa, il suo sorriso visibile anche nell’oscurità. «Non accenderai mai un fuoco con il telefono.»

      Era ora di confessare. «Stavo cercando istruzioni.»

      «Nessuno ti ha insegnato a farlo?»

      Scossi la testa.

      «Lascia che ci pensi io.» Scomparve in un crepaccio nella montagna e tornò con un cesto pieno di foglie e ramoscelli. «Ti serve un innesco. Il vento può essere piuttosto brutale, quassù, quindi teniamo al riparo tutto ciò che può volare via.»

      Si accovacciò, e la maglietta si tese contro la sua schiena muscolosa. Riposizionando il legno che io avevo sconsideratamente lasciato cadere nella buca, aggiunse le foglie secche e poi si girò verso di me. «A te l’onore.»

      Bastò uno schiocco dell’accendino perché le foglie prendessero fuoco. Le fiamme inghiottirono il primo pezzo di legno, e un soddisfacente bagliore arancione divorò la nostra opera.

      «Vuoi compagnia?» mi chiese.

      «Certo.» Avrei potuto giurare che il calore che accarezzava il mio corpo proveniva da lui e non dal fuoco. Quell’uomo aveva la capacità di cambiare l’energia intorno a sé. Io non capivo, e di solito mi rifiutavo di credere a cose del genere. «Grazie per non esserti preso gioco di me.»

      «Sono sicuro che ci sono molte cose che tu sai fare e io no.» Chance si sistemò sulla sedia e alzò la testa al cielo. «Salvare vite, per esempio.»

      «Molto dipende dall’istinto.» Lasciavo che le intuizioni mi guidassero quando i dati medici non sempre avevano senso. «Le persone spesso ignorano ciò che effettivamente vedono per quello che pensano dovrebbe accadere.»

      Chance annuì, passandosi una mano sul mento ispido. Era un uomo selvaggio come il paesaggio montano che ci circondava. «Allora starai bene, qui. Non preoccuparti di quello che ti dice il telefono. Da queste parti, continuiamo a provare finché le cose non funzionano.»

      «Non rimarrò a lungo. Una volta che la nonna si sarà sistemata, tornerò a Nashville.»

      Qualcosa oltre al riflesso delle fiamme balenò nei suoi occhi. «Peccato. Ci sarebbero utili persone come te.»

      «Non mi conosci nemmeno.»

      «No, ma hai mollato tutto per venire ad aiutare tua nonna e tua sorella. E anche se non ti piacciono particolarmente», alzò la mano quando rimasi senza fiato, «le ami. Capisci cos’è importante.»

      «Da quanto tempo vivi qui?» Avevo sempre considerato Summerland una cittadina di campagna, ma a quell’uomo non mancava la raffinatezza.

      «Da sempre» disse con una risatina.

      «Chi ha costruito le caverne? Sono stupende.» Avevo pagato un occhio della testa la ristrutturazione di casa mia, e combattevo costantemente contro il lavoro mal fatto. I tizi che sapevano davvero quello che stavano facendo e si preoccupavano abbastanza da farlo bene, costavano una fortuna. Ma il lavoro all’interno della montagna era una vera e propria meraviglia architettonica.

      «I lavori durano da generazioni. Ma io mi sono occupato dell’ampliamento della struttura, comprese le stanze in cui alloggiate tu e Nora.»

      «Le hai fatte tu?» gli chiesi

      Lui annuì. «Tutti ci hanno lavorato su, ma ho progettato io la maggior parte di ciò che vedi.»

      «Sono impressionata. Ho comprato da poco una vecchia casa e l’ho fatta ristrutturare. È stato molto più difficile di quanto mi aspettassi.»

      «Hai fatto tutto da sola?» mi chiese.

      Io scossi la testa. «Ho fatto tutto quello che potevo. Il progetto, la tinteggiatura, la disposizione delle stanze e dei mobili. Ma il resto l’ho lasciato agli esperti.»

      «Anche tu hai costruito la tua caverna personale.» Il suo sorriso era pura soddisfazione. Le fiamme tremolavano contro la sua pelle ambrata, ma non erano loro a farlo risplendere. Quelle caverne erano la sua passione. «La montagna è una cosa viva, che respira. È fatta di roccia, ma è ricoperta di piante e alberi. Il tempo è migliore grazie alla catena montuosa, perché protegge la valle. È una cosa che prendo in considerazione quando scavo una nuova stanza all’interno della montagna. Voglio onorare quell’energia.»

      «Perché una montagna?» gli chiesi. Quell’uomo sembrava in grado di costruire qualsiasi cosa. Immaginai un’accogliente capanna di tronchi incastonata tra le montagne, con davanti un fuoco scoppiettante, e mi vidi rannicchiata contro quei muscoli sotto una coperta soffice mentre soffiavano le raffiche di vento.

      Ma non poteva che essere una fantasia, un ricordo di quel viaggio che avrei portato con me a Nashville.

      «Perché siamo draghi.» Mi diede la possibilità di rispondere, ma non ci riuscii.

      Non sapevo come dirgli che non credevo a ciò che stava affermando, perché in quel momento, davanti al fuoco con quell’uomo bello e forte che aveva costruito un impero dentro una montagna, riuscivo a credere che lui fosse qualcosa di più che un semplice essere umano. Anche se sapevo era impossibile.

      «Il nostro lavoro è proteggere le montagne» aggiunse.

      «Da cosa?»

      «Cosa fai, tu, come dottore?» Si voltò verso di me, appoggiando il gomito sul bracciolo della sedia e il mento nella mano. Le sue gambe chilometriche si allungarono, i piedi puntati contro le rocce che contenevano il fuoco. Stava evitando di rispondere alla mia domanda.

      Come avrei potuto riassumere tutto in due parole? Non avevo bisogno di semplificare troppo le cose per quell’uomo, ma avevo la sensazione che non mi stesse chiedendo cosa facevo come medico, ma perché avessi scelto di diventarlo. «Idealmente, mi assicuro che i bambini siano in salute. Questo quando vengono per controlli e visite mediche. Ma non è sempre così facile. La vita si mette di mezzo, o vengono da me già malati. A quel punto collaboro con loro e con i loro genitori per riuscire a farli stare meglio. A volte hanno visto molti dottori prima di venire da me, e sperano che io possa trovare una risposta che gli altri non hanno trovato.»

      Chance annuì.

      «A volte ci riesco. Quelle sono le belle giornate. Quando posso dare speranza a qualcuno. Ci sono ore di ricerca, lettura di giornali scientifici e incontri con compagnie di assicurazione e case farmaceutiche. Ma la mia passione sono i bambini. Garantire loro la miglior vita possibile.»

      «Assomiglia molto a ciò che facciamo noi per proteggere la valle» mi disse. «Speriamo che tutti siano al sicuro. Ma a volte ci sono persone che vengono qui per fare del male, e ci dobbiamo occupare di loro.»

      «Come?» Sentii il sangue ghiacciarsi nelle vene. Lui non prescriveva medicine al gusto di gomma da masticare per sbarazzarsi dei cattivi.

      «Facciamo tutto il necessario.» La sua voce conteneva un rimbombo, come se ci fosse una tempesta in lontananza. Mi strinsi il maglione attorno al corpo per scongiurare un brivido improvviso.

      «È quello che è successo a casa di mia nonna?» gli chiesi.

      «Abbiamo