Gemma Cates

Voglio Morderti Il...


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faceva rizzare i peli sulla nuca. Io ero la predatrice, che cazzo. Non venivo braccata; ero io quella che braccava. E questo tizio non aveva recepito il messaggio.

      Non stava socializzando.

      E apparentemente non era venuto insieme a qualcuno.

      Quello era strano. Perché era venuto se non socializzava o non era con qualcuno? Cosa aveva in mente? Come faceva a sapere che io organizzo fantastiche feste in cui ci si può imbucare, se effettivamente non conosceva nessuno?

      Inoltre, poteva anche smettere seduta stante quella stronzata di fissare. Mi ero avvicinata a lui, cercando per prima cosa tracce di sale delle patatine o gocce di queso. Era lui il colpevole del queso; ne ero sicura. Non avendo trovato nulla – la sua logora maglietta era assottigliata dai troppi lavaggi, ma era pulita - lo avevo guardato negli occhi fingendo un sorriso. “Conosci qualcuno, qui?”

      Lui aveva inarcato le sopracciglia, come se fosse sorpreso di essere stato sgamato per la sua apparente mancanza di invito. Tendendo una mano, aveva detto “Conosco te, se questa volta mi permetti di presentarmi. Oliver Watson.”

      Si dava il caso che fossi una fan di Sherlock Holmes, e io ero rimasta offesa dal nome di quel tizio. Quella bestia di bambinone, con i suoi bicipiti sporgenti, le gambe robuste e le spalle larghe, non era un personaggio di contorno. Era l’attrazione principale.

      Aspettate, torniamo indietro. Era sciatto e sembrava un barbone, e non corrispondeva affatto agli standard del fidato assistente di Holmes.

      E, dannazione, la sua mano. L’appendice che mi aveva proteso, come se io fossi felice di prenderla, parlava da sé. Avrei dovuto capirlo guardando quel tizio con una sola occhiata. Aveva dita lunghe e forti, con calli ai polpastrelli. La mano di un chitarrista. Era mancino, altrimenti mi sarebbe sfuggito.

      Ero indecisa se accettare il gesto, ma poi avevo perso l'occasione quando l'aveva ritirata. Aveva sorriso, come se la mia sgarbata esitazione lo avesse divertito.

      “La tua barista è discreta.” Aveva inclinato la testa in quel modo impudente, egocentrico, tipico degli uomini che pensano di governare il mondo.

      “Io sono più bravo, ma lei non è male.”

      “Quindi, sei un barista?” Quando non era un musicista colpito da povertà. Figurati. Aveva l’aria di uno che scopava molto. Musicista più barista equivaleva a una fottuta vagonata di sesso.

      Una piccola parte del mio cervello saltellava su e giù, sottolineando il fatto che lui avesse un impiego, uno dei requisiti del mio elenco. E nel mio elenco degli scopabili, avere un impiego poteva essere assai ampiamente interpretato come qualsiasi lavoro che contribuisse a pagare le bollette.

      Un impiego… con orari infernali, circondato da donne arrapate che ci provavano costantemente, e probabilmente lui non metteva da parte niente per quando sarebbe andato in pensione. Questa osservazione l’aveva fatta l’altra parte del mio cervello, quella scettica.

      “Preparo un buon margarita, e un ancor più buono Bloody Mary.” Aveva stretto gli occhi e il suo sguardo mi trafiggeva.

      Avevo la spiacevole sensazione che stesse insinuando… qualcosa con quel commento sul Bloody Mary. Ma non che fossi una vampira. Era assai improbabile che quel trasandato, testosteronico barista suonatore di chitarra sapesse qualcosa sui vampiri. Stavo cominciando a sentirmi sbronza, quindi probabilmente era soltanto l’alcol che mi rendeva paranoica. Non che l’alcol, di solito, facesse quell’effetto, ma d’altronde, di solito, non tracannavo nemmeno bicchierini di Fireball.

      “Dovrai lasciarmi il tuo biglietto da visita. Giusto in caso abbia bisogno di qualcuno per la mia prossima festa.” Lo stavo prendendo in giro. Era improbabile che quel tizio avesse un biglietto da visita.

      Invece aveva tirato fuori il portafoglio e me ne aveva dato uno. Oliver Watson, un numero di telefono e un indirizzo email. Nient’altro.

      Chi è che va ancora in giro con i biglietti da visita? Specialmente i biglietti da visita che non sono da visita. Che cavolo di biglietto era quello?

      Forse li tirava fuori quando si proponeva per qualche serata… sebbene quello non fosse tipico dell’appartenenza a una band di ragazzi cattivi.

      “Suoni la chitarra?”

      Aveva guardato il suo biglietto, poi me, chiaramente confuso su come avessi fatto a giungere a quella conclusione.

      “La tua mano. I calli sono caratteristici.”

      Aveva annuito e si era rilassato. “Righteous and Feral.” Poiché non mi ero messa a saltare su e giù immediatamente come una fangirl, aveva spiegato, “È una band locale.”

      Ma non mi dire. Ma non avevo alzato gli occhi al cielo.

      “I Giusti e gli Spietati?” Sì, sembrava un vagabondo con la barba, e poi c’erano quei capelli selvaggi, seppure con stile. Ma spietato? Per favore.

      Aveva annuito, con un barlume di divertimento negli occhi.

      Pensava che la mia incredulità fosse divertente? Vabbè. Poteva pensare di essere giusto e spietato finché voleva. Quello non lo rendeva vero, a parte il suo precedente sguardo fisso da predatore.

      “Siete una cover band?” avevo domandato, cercando di non sembrare una stronza altezzosa. Mi piaceva una buona cover band tanto quanto la persona accanto. Ma molti musicisti aspiravano a suonare la loro musica… e fallivano.

      “Un po’ di questo e un po’ di quello.” Aveva fatto spallucce. “Puoi chiamarmi a quel numero se ti serve qualcuno al bar. Mi piace preparare un buon cocktail speciale.”

      Perché quella proposta sembrava così indecente? Come se lui avesse sottolineato “cock”1 facendolo seguire da “tail”.

      Ce la stavo mettendo tutta per sbronzarmi.

      E che razza di musicista era questo tizio? Non andava avanti a parlare della sua musica, delle sue influenze, dell’erba che raccoglieva strada facendo suonando nei dive bar2 del Texas centrale. C’era qualcosa di ambiguo in questo tizio. Conoscevo dei musicisti, e lui era fuori schema.

      Una cosa che avevo imparato dopo diciassette anni vissuti insieme a un chitarrista stronzo come sua c’era-una-volta una groupie era che i musicisti sono presi fino al punto di essere narcisisti e vogliono parlare sempre di musica. La loro, quella che amano, quella che amano odiare, qualsiasi cosa purché riguardi la musica. Mio padre, i suoi ex compagni della band e i loro amici rocker non perdevano mai l’occasione di parlare a profusione del loro argomento preferito.

      Ma non Watson.

      Mi ero infilata il biglietto nel bustino lanciandogli un’occhiata sospettosa.

      Lui aveva seguito la mia mano mentre sistemavo il biglietto vicino al seno; avevo lasciato che il suo sguardo indugiasse sulla mia scollatura.

      Grazie, bustino da Wonder Woman. Le mie ragazze avevano un aspetto particolarmente favoloso quella sera.

      Per questo Halloween avevo deciso di mettere in mostra le mie curve. Non che non ci fossero altre ragioni per scegliere il costume. Wonder Woman era la più cattiva dei cazzuti. Primo, il Lazo della Verità – non è necessaria alcuna spiegazione ulteriore. Ma nel caso in cui non fosse stato sufficiente, avevo anche un paio di fantastici stivali da dominatrice da indossare come parte del costume.

      Sono bassa per fare l’amazzone – cavolo, sono semplicemente bassa – ma quello non significava che non avessi un look da sballo.

      Watson sembrava essere d’accordo.

      A parte il bustino, avevo trovato dei fortissimi pantaloncini da uomo a stelle e strisce che abbracciavano le mie curve. Tra le spalle scoperte e le cosce nude, esibivo un bel po’ di pelle. Avevo persino eliminato la mantellina perché la serata era rimasta abbastanza calda. O forse quello era successo dopo il quinto o sesto bicchierino. È difficile dirlo.

      Pelle nuda o no, quello non significava che lui avesse un lasciapassare gratuito