Блейк Пирс

Prima Che Prenda


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Creek, quelle strade di campagna facevano sorgere in Mackenzie sempre più interrogativi... alcuni più urgenti di altri. Li tenne a mente mentre ripensava ai frammenti di vetro sulla strada. Cercò di immaginare qualcuno che li pitturava con l’intenzione di fermare una macchina.

      Non era semplicemente un’azione deliberata. Richiedeva un’accurata premeditazione e una conoscenza del traffico notturno lungo la Route 14.

      Il nostro uomo è pericolosamente furbo, pensò. È anche un pianificatore e sembra prendere di mira solo le donne.

      Mentre stilava il profilo di quell’uomo, iniziò a provare una sensazione di urgenza... doveva agire in fretta. Quasi lo percepiva, nascosto lì vicino, tra quelle strade di campagna circondate da alberi, a rompere vetro e spruzzarlo di vernice nera.

      Progettando di rapire la prossima vittima.

      CAPITOLO QUATTRO

      Delores Manning stava pensando alla madre quando aprì gli occhi. Sua madre viveva in uno schifoso parco per roulotte appena fuori Sigourney. La donna era molto orgogliosa e testarda. Delores aveva programmato di farle visita dopo la presentazione del libro a Cedar Rapids. Dato che aveva appena firmato un contratto per la stesura di tre libri con il suo attuale editore, Delores aveva preparato un assegno da 7.000 $, nella speranza che la madre lo accettasse e lo usasse saggiamente. Forse era snob da parte sua, ma Delores si vergognava che la madre vivesse di sussidi e che facesse la spesa con i buoni pasto. Le cose erano state così fin dalla morte del padre e...

      Quei pensieri annebbiati svanirono quando i suoi occhi si abituarono al buio. Era seduta con la schiena premuta contro qualcosa di molto duro e quasi freddo al tocco. Lentamente cercò di mettersi in piedi, ma sbatté la testa contro una superficie identica a quella che sentiva contro la schiena.

      Confusa, alzò un braccio e scoprì di non riuscire a distenderlo di molto. Mentre il panico la assaliva, si accorse che l’oscurità era tagliata da sottili lame di luce. Proprio davanti a lei c’erano tre rettangoli di luce. Capì subito la sua situazione.

      Si trovava in una sorta di container... era piuttosto certa che fosse di ferro o un altro metallo. Non era più alto di un metro e venti e non le permetteva di stare dritta in piedi. Anche la larghezza e la profondità non superavano il metro e venti, facendone una specie di quadrato. Iniziò a sentire il fiato corto, assalita dalla claustrofobia.

      Si schiacciò contro la parete frontale e inalò aria fresca attraverso le aperture rettangolari. Le fenditure erano alte quindici centimetri e larghe otto. Quando ispirò, sentì odore di terra e di qualcosa di dolce ma al tempo stesso sgradevole.

      Da un punto lontano, così debole che sembrava provenire da un altro mondo, le sembrò di udire un suono. Era un macchinario? Oppure un animale? Sì, doveva essere un animale... anche se non aveva idea di quale. Maiali, forse?

      Con il respiro tornato più regolare, arretrò di un passo, rimanendo accucciata, e sbirciò attraverso le aperture.

      Dall’altra parte vide quello che sembrava l’interno di un fienile, o comunque una costruzione in legno. Circa sei metri più avanti, si vedeva una porta imbarcata da cui filtrava una luce torbida. Anche se non riusciva a distinguere granché, suppose di trovarsi in guai molto seri.

      A supportare la sua intuizione, notò che la porta del fienile era sprangata. Si lasciò sfuggire un gemito e spinse la parete davanti del container, che non cedette di un millimetro; non emise nemmeno uno scricchiolio.

      Si sentì nuovamente assalire dal panico, ma sapeva di dover ragionare e restare lucida. Tastò con le mani la porta del container. Sperava di trovare dei cardini, così avrebbe avuto qualcosa su cui lavorare. Non era molto forte, ma se ci fosse stata anche solo una vite incrinata o allentata...

      Invece non c’era niente. Provò sulla parete alle sue spalle, non trovando nulla nemmeno lì.

      In un gesto di assoluta impotenza, sferrò un calcio alla porta con tutta la forza che aveva. Quando nemmeno quello servì, arretrò per prendere la rincorsa e tentare di aprirla con una spallata. L’unico risultato fu che rimbalzò ricadendo all’indietro. Sbatté la testa e atterrò pesantemente sul sedere.

      Sentiva un grido risalirle la gola, ma non sapeva se fosse la cosa migliore da fare. Si ricordava perfettamente dell’uomo del furgone e di come l’avesse assalita. Voleva davvero farlo tornare da lei?

      No, non voleva. Pensa, si disse. Sfrutta la tua mente creativa per trovare il modo di andartene da qui.

      Ma non riusciva a pensare a niente. Anche se era riuscita a soffocare il grido che minacciava di uscirle di bocca, non riuscì a trattenere le lacrime. Diede un calcio alla parete anteriore del container e si accasciò nell’angolo più nascosto. Pianse più piano che poté, cullandosi avanti e indietro, osservando le lame di luce polverosa che filtravano dalle fessure.

      Per adesso, era tutto ciò a cui riusciva a pensare.

      CAPITOLO CINQUE

      Mackenzie non gradiva le decine di cliché stereotipati che le proponeva la sua mente quando lei ed Ellington si avvicinarono all’ingresso del Campo per Roulotte di Sigourney Oaks. Le case mobili erano tutte impolverate e sembravano reggersi in piedi per miracolo. Quasi tutte le auto parcheggiate erano uguali. Superarono un cortile rinsecchito dove due uomini sedevano a torso nudo su sedie da giardino. Una borsa frigo piena di birre stava in mezzo a loro, oltre a molte lattine vuote e accartocciate... ed erano solo le 16:35.

      La casa di Tammy Manning, la madre di Delores Manning, si trovava proprio al centro del parco. Ellington parcheggiò l’auto che avevano noleggiato dietro un vecchio pick-up Chevy malridotto. L’auto noleggiata sembrava migliore di quelle parcheggiate lì, anche se non di molto. La scelta all’autonoleggio Smith Brothers Auto era limitata e alla fine avevano optato per una Ford Fusion del 2008, che avrebbe davvero avuto bisogno di una bella riverniciata e di gomme nuove.

      Mentre salivano i traballanti scalini che portavano all’ingresso, Mackenzie studiò rapidamente il posto. Dei bambini giocavano con delle macchinine sulla strada polverosa. Una ragazzina alla soglia dell’adolescenza camminava alla cieca, gli occhi incollati al cellulare e la maglietta sgualcita abbastanza corta da lasciarle scoperto l’ombelico. Un anziano, un paio di case più avanti, era sdraiato a terra, alle prese con un tosaerba, con una chiave inglese in una mano e i pantaloni macchiati d’olio.

      Ellington bussò alla porta, che si aprì quasi immediatamente. La donna sulla soglia era di una bellezza semplice. Sembrava avere sui cinquant’anni e le ciocche di capelli grigi spiccavano su quelli neri più come un abbellimento che come un segno dell’età. Aveva l’aria stanca, ma dall’odore del suo alito quando chiese “Chi siete?”, Mackenzie intuì che doveva aver bevuto.

      Fu Ellington a rispondere, anche se non si mise davanti a Mackenzie. “Io sono l’Agente Ellington e questa è l’Agente White. Siamo dell’FBI” disse.

      “L’FBI?” chiese. “E che diamine volete?”

      “È lei Tammy Manning?” chiese.

      “Sì” disse la donna.

      “Possiamo entrare?” chiese Ellington.

      Tammy li guardò non con sospetto, ma piuttosto con incredulità. Annuì facendosi da parte, lasciandoli entrare. Appena misero piede dentro casa, furono avvolti da un denso odore di fumo di sigaretta. L’aria ne era satura. Su un posacenere sul tavolino bruciava una sigaretta solitaria, circondata da mozziconi.

      Dietro il tavolino era seduta un’altra donna, che pareva leggermente a disagio. Mackenzie pensò che in realtà sembrasse addirittura schifata di stare lì a sedere.

      “Se ha degli ospiti” disse Mackenzie, “forse è meglio se parliamo fuori.”

      “Non è un’ospite” replicò Tammy. “È mia figlia Rita.”

      “Salve” fece Rita, alzandosi per stringere loro la mano.

      Adesso