aveva fatto fremere ora si ripresentò più potente. Herman la fissò e deglutì. “Chi?”
La ragazza lo guardò e rispose: “Per favore, per favore, non permettergli di riprendermi.”
Herman cercò di placarla, mentre con la mano rovistava in tasca e si rendeva conto che il telefono era rimasto nel camion.
Le fece segno e aggiunse velocemente: “Andiamo, veloce. Devo portarti in ospedale. Per favore, sarai al sicuro. Andiamo via dalla strada.”
Ci mise un po’ a convincerla, gli ci volle pazienza, aiutandosi con i gesti della mano. Ma alla fine la ragazza lo seguì zoppicante, lasciando impronte insanguinate dietro di sé. Si allontanò dal centro della strada e si diresse verso l’autoarticolato. Le gocce di sangue macchiarono l’asfalto bagnato. La luce blu che lampeggiava a scatti all’improvviso si spense del tutto mentre Herman la guardava.
Ogni passo era un salto nel buio. Gli alberi incombevano su di loro tutt’attorno, la foresta e la solitudine erano opprimenti.
“Vieni, veloce,” le disse Herman.
La aiutò a montare sul camion, delicatamente, facendo del proprio meglio per non toccarla. Ogni volta che per sbaglio la sfiorava, lei sembrava sussultare.
Poi fece di corsa il giro del camion, salì in cabina e, senza aspettare, fece retromarcia staccandosi dal lampione piegato. Avrebbe dato un’occhiata più approfondita al mezzo la mattina dopo. Per ora, voleva andarsene da quella statale maledetta, da quelle luci lampeggianti, da quella foresta desolata.
“Dove mi stai portando?” chiese lei sottovoce, gli occhi sgranati.
“All’ospedale,” le disse. “La polizia può venirci incontro lì. Andrà tutto bene. Te lo prometto. Chiunque ti abbia fatto del male, non è qui adesso, sei al sicuro.”
La ragazza si lasciò andare a un singhiozzo tremante, il petto che sobbalzava, gli occhi fissi sulla strada, poi chiusi, le palpebre che si muovevano a scatti. Quando la stanchezza ebbe la meglio e lei si appoggiò allo schienale, macchiando il sedile del passeggero, mormorò: “Gli altri non sono al sicuro. Lui farà loro del male. Lui li ucciderà per quello che ho fatto.”
CAPITOLO DUE
Niente ascensore nel suo nuovo appartamento, ma ad Adele le scale non davano fastidio. La sua mano scivolava sul corrimano in legno lucido, mentre con la mente rivangava vecchi ricordi. Ricordava di quando scendeva saltellando questi gradini di marmo. Ricordava di quando si fermava a guardare la porta dall’altra parte delle cassette della posta. L’appartamento 1A. Le lettere argentate si erano scrostate ed erano state sostituite. In effetti l’intero appartamento era stato ristrutturato. Anche le luci sopra la sua testa non erano più lampeggianti e soffuse, ma fornivano una solida illuminazione ad atrio e scale. Adele fece l’ultimo gradino fermandosi in fondo alle scale e ricomponendosi.
Di nuovo in Francia. Non l’avrebbe mai detto.
Si passò una mano tra i capelli biondi che le arrivavano alle spalle e sorrise. Era passato meno di un mese dall’ultima volta che aveva visto suo padre. Quella faccenda al resort sciistico si era conclusa in modo strano. Adele avrebbe voluto andare a trovare suo padre per Natale, ora che si era trasferita in Europa. Ma il suo appartamentino in Francia era lontano dalla casa in Germania dove lui abitava, e la tempesta di neve di due settimane fa le aveva impedito il viaggio. Quindi aveva passato quella settimana con Robert, festeggiando il Natale alla sua villa.
Si portò una mano all’orecchio e toccò gli orecchini di diamante a goccia che le aveva comprato. Adele normalmente non era tipa da gioielli, ma un regalo di Robert era sempre qualcosa di speciale. Si accigliò, abbassando la mano e fissando la porta dell’appartamento di fronte. Robert sembrava non stare bene. Ogni volta che glielo chiedeva, lui negava, ma poi si metteva a tossire e a volte addirittura si scusava e usciva dalla stanza.
Scosse la testa, pensando che sarebbe stato meglio affrontare l’argomento in maniera più decisa l’ultima volta che l’aveva visto. Ma i festeggiamenti di Natale non le erano sembrati il momento adatto.
E ora, non solo era tornata in Francia, ma si era trasferita addirittura nell’appartamento dove un tempo viveva con sua madre. Il destino aveva fatto il suo gioco: l’unità si era resa disponibile solo una settimana dopo che Adele aveva iniziato la sua caccia a Parigi. Forse non si trattava solo di destino: forse era qualcosa di più vicino all’inevitabilità.
Adele tirò fuori dalla tasca un piccolo taccuino in pelle marrone e ne sfogliò le pagine, il suo umore che si incupiva. Si appoggiò al corrimano, rivolta verso l’1A mentre studiava il bloc notes.
Ogni indizio, ogni possibile pista, e alcune di quei dettagli – lo sapeva – la polizia non li aveva neanche mai conosciuti. Suo padre aveva cercato per anni l’assassino di Elise. E ora le aveva ceduto il taccuino, passandole effettivamente il testimone.
Erano tre settimane che Adele passava al setaccio il quadernetto, tra i vari spostamenti e i festeggiamenti di Natale. Tre settimane di tempo a scorrere gli appunti di suo padre, a catalogarli, a memorizzarli. Aveva nel suo computer diversi file che usava per smistare gli appunti. Alla fine avrebbe trovato qualcosa.
Tornare a questo appartamento? Non la stessa unità, ma lo stesso edificio che un tempo aveva condiviso con sua madre. Non si trattava di nostalgia: c’era uno scopo. Adele non si considerava una persona particolarmente nostalgica.
Lei era un segugio con una traccia da seguire. Pagina trentasette.
Ci tornò e rilesse le righe ora impresse nella sua mente.
“Qualcuno si sta scambiando biglietti… scritti a mano. Buffo?”
Adele scosse la testa. Aveva già chiesto a suo padre cosa significasse, ma neanche lui non era stato in grado di darle una spiegazione. Era semplicemente il ricordo di una conversazione che aveva avuto con la sua ex moglie. La prima volta che aveva sospettato che in Francia ci fosse qualcosa che non andava. La sua ex moglie lo aveva chiamato e gli era sembrata agitata. Gli aveva detto che qualcuno stava scambiando qualcosa. Adele strinse i denti. Suo padre non era mai stato un grande ascoltatore. Almeno l’aveva scritto prima di dimenticarsene completamente. Qualcuno stava scambiando biglietti, scritti a mano, buffo…
Quindi qualcuno stava scambiando biglietti. Cosa significava esattamente?
Adele tamburellò con il blocchetto contro la mano e fissò le cassette della posta.
Aveva già parlato con il postino. Un tipo giovane, non più di trent’anni. Certo non poteva darle un aiuto in merito. Aveva cercato di avere da lui delle informazioni su chi portasse la posta in quell’edificio quasi dieci anni fa. Non aveva saputo risponderle. Non glielo poteva dire. Informazioni confidenziali.
Se qualcuno stava scambiando la posta di sua madre lasciando dei biglietti, forse si trattava di uno stalker. Qualcuno che aveva un interesse per lei. Forse l’assassino stesso?
Ma le cassette erano chiuse. Non le mandava biglietti… li scambiava. Così diceva il messaggio. Così ricordava suo padre. Era stato irremovibile su quel punto. Al telefono, quella volta, sua madre si era mostrata agitata perché qualcuno scambiava biglietti.
Ma perché succedesse, qualcuno doveva avere bisogno della chiave della posta. Neanche il locatore ne aveva una. Adele aveva già tentato di chiamare l’ufficio postale un po’ di volte, ma si erano rifiutati di fornirle l’informazione al telefono. Aveva pensato di usare le sue credenziali, ma senza una cassetta attiva, sarebbe stata un’infrazione del protocollo e motivo di terminazione del contratto. Questa era solo la seconda settimana che lavorava da corrispondente per il DGSI, fra i casi gestiti dall’Interpol. Usare delle credenziali senza permesso probabilmente non era la tattica migliore.
Ma ora Adele aveva una nuova idea.
Percorse il corridoio e si avvicinò alla porta dell’1A, sollevò la mano e bussò con delicatezza.
Un rumore dall’interno, poi il silenzio. Adele bussò un po’ più forte. Altri fruscii, poi dei passi.
Poi il rumore della catena che tintinnava e la porta si aprì. All’interno, l’appartamento era piuttosto ordinato.