annuì, schermandosi gli occhi per guardare in direzione della città. “Hai ragione,” disse. “Non ci avevo pensato.” Non aggiunse il motivo: era single, ovviamente, e non aveva molti familiari con cui passare il tempo. L’escursionismo era tutto per lei: silenzio, solitudine, tempo per riflettere.
A pensarci bene, in fin dei conti non era così male condividerlo con qualcuno.
“Per quanto mi riguarda, preferirei mettermi in cammino ogni giorno,” disse lui. Quando lei si girò a guardarlo, l’uomo sorrise con una scintilla negli occhi. “Non ho una ragazza da cui tornare, quindi passo più tempo possibile all’aria aperta. Vivo a un paio di città di distanza da qui. È per questo che di solito non vengo da queste parti.”
“Ah sì?”domandò Lorna. La sua mente era impegnata a elaborare quelle informazioni: lui era single, viveva nei dintorni ed era innegabilmente attraente. Questo incontro stava diventando alquanto opportuno. Si stava chiedendo in che modo tirare fuori l’argomento. Forse avrebbe dovuto aspettare che fosse lui a parlarne per primo, o magari dire casualmente qualcosa a proposito di mostrargli i cammini, nel caso avesse voluto riprovarci.
“Ehi, magari qualche volta potresti mostrarmi la zona,” disse lui, facendo accelerare il battito cardiaco della ragazza. “Ti andrebbe? Insomma, quando la mia caviglia si sarà rimessa in sesto.”
“Certo,” rispose lei. Non si azzardò a guardarlo, nel caso lui si fosse accorto del rossore sulle sue guance. “Mi piacerebbe.”
“Sono davvero felice di averti incontrato, oggi, Lorna,” disse lui, e lei non poté fare a meno di condividere con tutto il cuore.
Poi si fermò, rendendosi conto che lui aveva pronunciato il suo nome.
Quando gli aveva detto il suo nome?
Aprì la bocca per chiedergli se si fossero incontrati altrove prima d’ora; in caso contrario, come avrebbe potuto sapere chi fosse? Ma in quel momento, mentre iniziava a voltarsi verso di lui, qualcosa di duro colpì la parte posteriore della sua testa, in un punto doloroso che sembrò scuoterle il cervello nel cranio.
Lorna aprì gli occhi e si accorse di essere distesa a terra, nonostante avesse soltanto sbattuto le palpebre. Sentiva un dolore acuto rimbalzare tra le pareti della sua testa, e quando allungò una mano, con aria intontita, per controllare se ci fosse del sangue, lo vide. Ora era in piedi davanti a lei, e ogni segno di problemi alla caviglia era sparito. Era eretto e alto, la sua postura decisa, inflessibile. La sua mano sinistra impugnava un manganello di cuoio, e lei si rese conto vagamente che doveva essere stata quella l’origine del dolore alla testa.
“Cos …?” cercò di domandare. Aveva sonno, nonostante il dolore, e sembrava come se tutto si stesse muovendo attraverso della melassa.
“Non ti muovere,” disse lui. La sua voce adesso era piatta e dura, come un pezzo di ardesia.
Lei non aveva alcuna intenzione di obbedire a quel comando, ma non c’era molto altro che potesse fare. Lorna smise di toccarsi la testa alla ricerca dell’origine del dolore e cercò invece di girarsi, un processo lento che la fece ansimare e fermare, mentre il suo cervello oscillava e pulsava.
Lui uscì da una macchia di cespugli bassi, ritornando nel campo visivo della ragazza. Adesso aveva qualcos’altro in mano. Qualcosa di lungo che brillava al sole, emanando riflessi argentei. Cercando di reprimere un’ondata di nausea mentre si voltava, Lorna si rese conto vagamente di cosa fosse: una sorta di spada, con una leggera curvatura verso l’estremità della lama.
“Ho detto,” ringhiò lui, avvicinandosi e fermandosi in piedi davanti a lei, schermando il sole con il proprio corpo, “non ti muovere.”
Lorna alzò lo sguardo. La testa dell’uomo era circondata da un alone creato dai raggi del sole, ma il suo viso era coperto da un’ombra nera. Lui sollevò il machete e spostò leggermente i piedi, come se stesse cercando la posizione giusta. Lorna portò in avanti un pugno ripiegato per strisciare via, cercando di muoversi, cercando di fare qualsiasi cosa per scappare.
Sentì un sibilo mentre il machete si abbatteva su di lei, e Lorna chiuse gli occhi in modo da non dover vedere.
CAPITOLO TRE
Va tutto bene, ricordò a se stessa Zoe, spostando lo sguardo tra il viso ridente di Shelley e quello di John, e incollando un sorriso sul suo per imitarli. Di fronte a lei, Harry, il marito di Shelley, stava lisciandosi la cravatta, discretamente compiaciuto di se stesso per la barzelletta ben raccontata. Era un gesto così simile a quello di John che Zoe dovette frenarsi dal fissarlo. Cos’avevano le cravatte perché tutti volessero lisciarle?
“Questa è stata davvero un’ottima idea, Shelley,” disse John, alzando verso di lei il suo bicchiere di vino prima di fare un sorso. Aveva scelto ancora una volta una camicia a strisce blu per quella cena. Zoe stava tenendo il conto di quante ne avesse, e sembrava che ne fossero un bel po’.
“Sono d’accordo,” disse Harry. “È bello conoscere meglio i tuoi colleghi.” Rivolse a Zoe un sorriso gentile, come se volesse farle sapere che era stato tutto perdonato. Insieme ai suoi capelli castani scompigliati, che sembravano sempre un po’ selvaggi, gli conferì un aspetto piuttosto geniale.
Zoe arrossì un po’, ma ricambiò il sorriso. L’ultima volta che era stata invitata a cena da Harry e Shelley, era scappata via da casa loro in preda al panico, sentendo il peso della vita perfetta di Shelley abbattersi su di lei.
Ma quello era stato prima. Prima che la dottoressa Monk l’aiutasse, prima che lei acquisisse il controllo sui numeri che l’avevano accompagnata in ogni istante della sua vita fino ad allora. Prima che potesse immaginare di sedersi in un ristorante affollato insieme ad altre tre persone, di sopportare conversazioni che si incrociavano e si sovrapponevano e di essere persino in grado di stare al passo.
“Le vostre portate,” annunciò il cameriere, facendo la sua comparsa alle spalle di Zoe con quattro piatti ben equilibrati tra il braccio e la mano. Il tavolo fu percorso da un mormorio generale di approvazione, e tutti tirarono indietro le mani e i gomiti per fare spazio.
Zoe abbassò lo sguardo sul proprio piatto mentre veniva sistemato davanti a lei, e i suoi occhi si spostarono sull’insalata di lato. Contò cinque foglie di lattuga iceberg, tre di lattuga romana, due pomodorini, un quarto di peperone tagliato a listarelle …
Chiuse gli occhi per un istante, cercando di raggiungere una tranquilla spiaggia insulare con nient’altro che il dolce sciabordio delle onde. Sotto il tavolo, la mano di John trovò e strinse la sua. Aprì gli occhi per fissarlo e sorridergli e respirò di nuovo, riportando i numeri in sottofondo, dove dovevano essere. John non conosceva il suo segreto, eppure sembrava capire istintivamente quando le servisse conforto.
“Sembra delizioso,” disse Zoe, sbirciando i piatti degli altri e pensando la stessa cosa.
Ci furono mormorii d’assenso e rumori metallici, mentre ciascuno di loro prendeva le proprie posate e iniziava ad affondarle nelle rispettive pietanze. L’arrivo del cibo fu sia benvenuto che indesiderato. Le fornì una scusa per non dover tenere il passo con quella costante conversazione, ma lasciò anche il tavolo avvolto nel silenzio, una cosa che faceva sempre sentire Zoe a disagio.
Beh, in realtà si sentiva più a suo agio quando c’era silenzio. Ma conosceva le aspettative sociali degli altri, quella pressione che imponeva che il silenzio venisse riempito. Alzò lo sguardo ansiosamente e incontrò quello di John, e lui le sorrise. Zoe allungò la mano per prendere il suo bicchiere di vino e fece un sorso, tranquillizzata dall’andazzo delle cose.
La portata principale terminò abbastanza agevolmente, con frammenti di conversazione qui e lì che lasciarono nuovamente il passo al gradimento generale delle pietanze, apparentemente senza alcun imbarazzo. Zoe rimase in stato di allerta, con la testa che si muoveva regolarmente per tutto il tavolo, attenta a cogliere indizi sociali che altrimenti avrebbero potuto sfuggirle. Questo le permetteva di rimanere vigile, teneva i numeri lontani dalla sua mente. Stava riuscendo a partecipare alla conversazione, piuttosto che limitarsi a essere seduta in disparte e sentirsi sopraffatta come capitava di solito.
“Allora, John, tu sei un avvocato,