lo era grazie al ritmo naturale delle attività che dava spazi alle relazioni umane e consentiva interruzioni legate a necessità personali. Il tempo del lavoro si identificava con quello della vita, l’uno era parte dell’altro. Allora non esisteva il nostro concetto di tempo libero: il tempo dello svago non si contrapponeva a quello del lavoro ma alla continua fatica di vivere; la possibilità di prendersi consolazione poteva investire qualsiasi momento del quotidiano, non solo nelle ore e nei giorni di festa ma anche in quelli della bottega.5
Gli studi che ho condotto su registri contabili di molte aziende mi hanno convinto del fatto che il ritmo del lavoro fosse estremamente diseguale. Diseguale l’intensità con cui ci si applicava alla produzione, diseguale il numero delle giornate lavorative nel mese. Ciò dipendeva non solo dalla diversa distribuzione dei giorni festivi, ma anche da altri fattori come i comportamenti della committenza che poteva provocare brusche accelerazioni e nuovi freni al lavorio della bottega; anche l’avvicendarsi delle stagioni e le cadenze della campagna potevano provocare mutamenti dei ritmi con il temporaneo trasferimento di manodopera cittadina. Gli stessi artigiani, spesso piccoli proprietari, erano talvolta costretti a lasciare la bottega per recarsi nella loro presa di terra.
Infine erano assai frequenti le assenze dal lavoro per motivi personali. Alcune aziende ne tenevano memoria in appositi libri «degli scioperii». Se ne conserva uno nel Fondo Datini.6 Scorrendo l’elenco dei conti accesi ai vari dipendenti, troviamo che le assenze erano relativamente frequenti e potevano durare da più giorni a poche ore. I motivi erano assai diversi: si era lasciato il lavoro per un pellegrinaggio o per andare alle terme di Montecatini; per andare a veder montare la campana del Duomo o per assistere un familiare, per andare in campagna o per governare il vino o partecipare a un lutto.7 Tali assenze determinavano una riduzione proporzionale o forfettaria del compenso stabilito all’inizio del rapporto di lavoro.
Insomma questi uomini, legati da un contratto a tempo determinato, entravano o uscivano dai laboratori d’accordo con il proprietario e nel rispetto delle esigenze del laboratorio.
Possiamo immaginare questa bottega, immersa nel tessuto urbano, come un punto di riferimento per i passanti, momento di sosta e di relazione sociale. La possiamo immaginare persino nella dimensione rappresentata da La bottega del falegname di Jean Bouchirdon, luogo in cui poteva raccogliersi la famiglia, spazio in cui i momenti di vita sociale non venivano mortificati dall’obbligo del lavoro.
I connotati di fondo della bottega bassomedievale rimasero sostanzialmente stabili mentre, proprio tra il Trecento e il Cinquecento, gli oggetti che uscivano da quei fondaci subirono significative trasformazioni nelle tipologie e nella qualità; ciò fu il frutto della evoluzione del potere di acquisto e quindi dei modelli di consumo.
All’inizio del periodo considerato, la domanda interna era essenziale, tipica di una realtà in cui la ricchezza era fortemente polarizzata; le attività produttive, seppure differenziate, erano lo specchio di quella situazione. L’immagine internazionale della manifattura fiorentina era essenzialmente rappresentata dai tessuti di lana, dagli eccellenti panni fatti di lane costose, tinti e rifiniti in modo magistrale. Mentre l’Arte di Calimala cedeva il passo all’Arte della Lana, quei panni pregiati che circolavano nel continente europeo e nel Mediterraneo concorsero in modo fondamentale alla crescita della ricchezza anche sostenendo l’ampliamento dei traffici commerciali delle grandi compagnie mercantili bancarie.
Il mutamento si venne realizzando con una certa gradualità che subì una forte accelerazione nei primi anni del Quattrocento. Crebbero le tipologie dei prodotti realizzati in città e, con la molteplicità produttiva, crebbe un complesso sistema di relazioni tra le botteghe, tra loro e le grandi aziende commerciali.
Dai tessuti e dalle fogge degli abiti agli strumenti più semplici della quotidianità; dal pettine alla valva di uno specchio, dai cassoni dipinti ai deschi da parto: erano oggetti di alto contenuto tecnico, uno più bello dell’altro, espressione di una sensibilità tutta rinascimentale. I manufatti più ricchi divennero testimoni di una forza economica e culturale, quella di Firenze appunto, che riusciva a imporre modelli di consumo ben oltre i propri confini, nelle corti e nei ricchi ambienti laici ed ecclesiastici europei.8
Il fenomeno coinvolse tutte le forme della produzione cittadina, dalle piccole botteghe alle più grandi imprese manifatturiere. Si pensi alle vicende del settore serico e auro-serico. Nel Trecento, i drappi di seta fiorentini e soprattutto quelli lucchesi e veneziani circolavano in Europa, ma perdevano la guerra commerciale con i tessuti di rara bellezza che venivano dall’Oriente, da Costantinopoli. Agli inizi del Quattrocento tale situazione cominciò a mutare.9 Per segnalare alcuni fatti emblematici, nel 1422, un’ambasceria fiorentina si recò in visita al «Soldano» d’Egitto; tra i suoi doni, oltre che venticinque pregiati pannilani, vi erano tessuti serici. Se quegli uomini decisero di offrire un simile dono a chi viveva nel cuore di un’alta e antica tradizione, dovevano essere consapevoli della conquistata abilità dei loro battiloro e setaioli.10 Nel 1492, l’anno della scoperta dell’America, Bonsignore Bonsignori, un fiorentino che si trovava a Bursa, il più importante centro produttivo di tessuti serici e auro-serici della Turchia ottomana, scrisse che in quella città «Si lavorano più sete e drappi d’oro che in tutta Italia, non sono però sì belli».11 Dunque in quel periodo Firenze aveva conquistato un primato che, inizialmente basato sulla imitazione, aveva assunto una autonoma identità. Nel 1542 la compagnia di Iacopo e Giovambattista Botti di Siviglia ordinò a Firenze una fornitura per la cattedrale: un piviale «d’oro filato e tirato, talché tutto parrà una massa di oro intero», una pianeta e una serie di camici che ebbero il valore di ben 1.500 ducati. Mentre i maestri fiorentini vi provvedevano, Matteo Botti scriveva ai suoi fratelli che, vedendo il lavoro finale, i canonici si sarebbero convinti «ch’e fornimentj che gl’ànno non sono niente […] e non parrà havere maj hauto cosa richa».12 Non ci stupisce troppo l’entità della somma spesa: Siviglia era la porta del Nuovo Mondo in cui giungeva gran parte dell’argento americano che stava inondando l’Europa. Stupiscono le modalità di azione dei Botti; essi sapevano, attraverso le mille relazioni commerciali ed epistolari, cogliere opportunità di affari di ogni genere e, nel caso specifico, seppero agganciare una prestigiosa committenza e condizionarne fortemente la scelta mostrando la superiorità dei propri stilemi. In questo modo il made in Florence avrebbe esibito se stesso.
Ma vi erano anche debe ser altre forme di imporre le proprie mode. Angela Orlandi ha trovato un documento molto interessante che è una specie di estratto-conto, del 1558, relativo alla realizzazione di una bambola. Siamo ancora nell’ambito della famiglia Botti di via dei Serragli. La bambola venne chiesta a Matteo dal fratello Iacopo che abitava a Siviglia per la figlia. Per costruire il giocattolo si fece ricorso a un falegname, Antonio Particini, che il Vasari definì «raro maestro di legname» che «merita somma lode»; la pittura del viso, «di colore incarnato», fu affidata a Gian Iacopo Mattoncini, discepolo di Lorenzo di Credi. Al vestito poi fu dedicata una particolare attenzione: il sarto utilizzò raso giallo e damasco verde avendo cura che la fattura fosse alla moda, uno stile probabilmente ispirato agli abiti indossati da Eleonora di Toledo, la moglie di Cosimo I. A tutto ciò si aggiungano i decori in seta che concorsero a farne un oggetto assai prezioso il cui costo equivaleva a circa tre mesi di stipendio di un ufficiale della zecca.13
La bambola non fu soltanto un giocattolo, fu custodita a Siviglia nell’abitazione del mercante insieme ad altre suppellettili e oggetti di arredo di cui si aveva il piacere di circondarsi. Tra questi vi era anche una «nostra Donna con figliolo in braccio e Giuseppo» che anni prima, nel 1535, Francesco,