iniziata quando aveva otto anni. È la pratica che rende perfetti, n’est-ce pas?
Il socio della donna, annoiato, si accese una sigaretta. Poi, girò i tacchi e se ne andò.
“Ehi! Dov’è che vai, Stine?” gemette Aletta, in preda ai piaceri del cunnilingus ma sempre sul chi-va-là.
“Se permetti, pure io c’ho voglia di un pompino,” rispose l’altro, seccato. “Mica posso restare a guardare te che ti diverti.” E si diresse al Ponte Inferiore.
“Ma il divertimento comincia questa sera,” sussurrò lei, prima di arrendersi alle coccole del suo Animale Da Compagnia.
Andava bene. Stine era perfettamente in grado di badare a se stesso. Aletta non avrebbe avuto nulla di cui preoccuparsi, se non venire. Poi, venire di nuovo. E, magari, venire ancora.
***
L'Oceano e il Sole sembravano respirare. Sembrava quasi stessero per dire qualcosa di davvero importante. Il Ponte Inferiore era il più vicino e Ad era in ascolto. Scrutava l’orizzonte coi suoi occhi color ciliegia. Non voleva perdersi una sola parola, se avessero iniziato davvero a parlare. Ma non lo fecero. O, forse, non riusciva a sentirli. Con tutta quella marmaglia che mormorava attorno a lui, come avrebbe potuto? Si stava annoiando.
“È scomoda, quella sdraio?” chiese, d’improvviso, un uomo.
“Non scomoda come quei vestiti neri che c’hai addosso,” rispose il ragazzo, sgarbato.
Stine sollevò un sopracciglio. Ma sorrise e gli si sedette affianco. Sulla stessa sedia.
“Adesso sì che è scomoda,” commentò Ad, mentre sollevava le gambe e le poggiava sulle ginocchia del nuovo arrivato.
E, all’improvviso, l'Oceano e il Sole cominciarono a gridare. Urla disperate. Ad si raddrizzò, di colpo.
“Stai mica aspettando qualcuno?”
Il ragazzo avrebbe voluto rispondere a modo suo. Ma cambiò idea e soppesò l’uomo con lo sguardo.
“Cos’è che vuoi?” gli chiese, poi, come se fosse appena arrivato.
“Niente,” fu la risposta. Poi, aggiunse, “Non hai paura a parlare così a degli sconosciuti? Non puoi mai sapere chi ti possa capitare di fronte.” Si sporse e lo fissò. “E come potrebbe reagire alla tua maleducazione.”
Ad ghignò. Lo divertivano sempre, i boomers che cercavano di intimidirlo.
“Un lupo non si preoccupa della reazione di una pecora,” rispose il giovane, acido come poche cose nella vita.
Stine sorrise. Immaginava come quelle labbra avrebbero gridato, come quegli occhi cremisi avrebbero pianto, come quella pelle si sarebbe arrossata, sotto le sue cure. E ridacchiò.
“Stasera, avvicinati al Quarto Tavolo. Vedrai che ne varrà la pena.” E se ne andò, non prima di aver buttato il mozzicone della sua sigaretta nel drink del ragazzo. Il cui primo impulso fu di tirarlo dietro a quel Vecchiaccio-Di-Merda-Che-Arriva-Lì-E-Pensa-Di-Fare-Come-Gli-Pare-Quando-Gli-Pare. Ma si bloccò, quando vide i muscoli di schiena e glutei dello sconosciuto. Un finto magro, poco ma sicuro. Rimase a guardarlo, mentre si allontanava. Dopo di che, si alzò. I battibecchi tra Monsieur Oceano e Mr. Sole non gli importavano più. Forse, non gli erano mai importati.
***
Aletta era seduta a un tavolo. Un venticello fresco le accarezzava il viso, ancora accaldato dagli orgasmi. Ma quelle sensazioni piacevoli non poterono nulla, contro la sua agitazione. Stine era sparito. Letteralmente. In più, tutti -tutti- non levavano gli occhi di dosso dal suo Schiavo. Il suo Schiavo! Se lo stavano letteralmente mangiando con gli occhi. Ma che filibustieri! Poi, lo vide. Stine. La salutò con un cenno del capo, ma non si avvicinò e proseguì oltre.
L’uomo era un gossipparo di prim’ordine, ma -in quel momento- la sua voglia di scopare era più forte della voglia di pettegolezzi. Non abbordò nessuno, però. Quegli Schiavi erano tutti così banali e insipidi. Nemmeno tutti assieme avrebbero potuto soddisfare ciò che quel bellissimo giovane gli aveva scatenato. Meglio solo, quindi, che male accompagnato. Non voleva certo passare per disperato.
“Ma che ca- Al! Vai là e scopri cos’è successo! E, soprattutto, quando è successo! Corri!” esclamò Aletta, spingendo lo Schiavo lontano da sé. Quello si alzò, abituato a ben di peggio, e si diresse verso l’obbiettivo.
Due falcate e lo raggiunse, proprio prima che entrasse nella sua cabina.
“Padron Stine,” disse. “La mia Signora vuole sapere cosa è successo. E, soprattutto, quando.”
“Cosa e quando?!” Stine corrugò le sopracciglia. Aletta diventava ogni giorno più assurda. Poi, guardò il manzo che aveva di fronte. “Entra che ti racconto.”
E Al obbedì. Se non l’avesse fatto, sarebbe stato punito dal Padrone.
Certo, Aletta lo avrebbe punito per aver acconsentito che un altro lo toccasse. E perché la stava facendo aspettare.
Poteva quasi vederla, dove l’aveva lasciata, che programmava il dopo-cena al Tavolo Quattro. Unghie affilate, espressione corrucciata, mentre preparava la punizione esemplare per il suo essere lento e insolente.
In un modo e nell’altro, lo Schiavo ne avrebbe pagato le conseguenze.
Non poteva vincere.
Ma non era sicuro che gli importasse.
CAPITOLO DUE
Un bellissimo ragazzo, poco più che adolescente, passò accanto ad Aletta. Lei lo vide, sorrise, allungò una gamba e gli fece lo sgambetto.
Lui bestemmiò che manco uno scaricatore di porto. Sollevò lo sguardo e la fissò. Quegli occhi color ciliegia, se avessero potuto, l’avrebbero uccisa. Aprì la bocca e le disse, “Scusate tanto,” col tono che nessuno mai assocerebbe a delle scuse.
Aletta rimase a bocca aperta. Non era proprio la reazione che si aspettava. Ma non si perse d’animo e gli offrì il suo sorriso più smagliante. Poi, senza guardarlo, si sistemò meglio sulla sua poltrona.
“Siediti, ti offro un caffè,” offrì, soave, sempre senza guardarlo. Di proposito.
La risposta non arrivò. Anche se quel silenzio fu molto eloquente.
Finalmente, si voltò a guardare il giovane. A quel punto, si aspettava di trovarlo in ginocchio. Terrorizzato per aver osato urtare una dei Padroni, gli occhioni belli pieni di lacrime. Semplicemente perfetto.
Ma lui non c’era.
Scomparso. Puf. Come se non fosse mai stato lì.
Si rese conto, in pratica, che aveva parlato da sola. Come un’idiota qualsiasi. La donna arrossì di umiliazione. Quello Schiavo presuntuoso aveva osato non implorare pietà. Le odiava, quelle puttane boriose. Se la facevano coi Corifei e non valevano assolutamente nulla, se non fosse stato per la loro bellezza. Si trovava sulla nave per incontrare Alsheh Mareh, la Lady Gaga di Firokami. Sicuro come la Morte che era quella la ragione. E se ne sarebbe pentito, eccome, per tutta la vita.
Aletta ghignò, pensando agli altri prima di lui. Tutti caduti tra le grinfie di Stine e mai più risollevatisi. Sarebbe successo anche a quel San Sebastiano. Sarebbe stata proprio lei a fare in modo che accadesse.
***
I Padroni adoravano sfondare culi. Non si curavano di prepararli prima. Era -quasi- voluto. E Stine non faceva differenza. Anzi, era maledettamente violento. Più degli altri. La sua era una missione. Doveva, per forza, dimostrare costantemente che lui era un Padrone e loro degli Schiavi. Nel caso di Al, una Bestia. Quindi, ancora più inferiore.
“Allora, troia, ti piace?” gli sussurrò all’orecchio.
“Sì,