Italo Svevo

La coscienza di Zeno


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per lui in quel momento; ma riteneva di poter attaccarlo mitemente di fianco come conveniva ad un malato. Ricordo che quando parlò, il suo respiro mozzava e ritardava la sua parola. È una grande fatica prepararsi ad un combattimento. Ma pensavo ch’egli non si sarebbe rassegnato di coricarsi senza darmi il fatto mio e mi preparai a discussioni che poi non vennero.

      – Io – disse, sempre guardando il suo mozzicone di sigaro oramai spento, – sento come la mia esperienza e la scienza mia della vita sono grandi. Non si vivono inutilmente tanti anni. Io so molte cose e purtroppo non so insegnartele tutte come vorrei. Oh, quanto lo vorrei! Vedo dentro nelle cose, e anche vedo quello ch’è giusto e vero e anche quello che non lo è.

      Non c’era da discutere. Borbottai poco convinto e sempre mangiando:

      – Sì! Papà!

      Non volevo offenderlo.

      – Peccato che sei venuto tanto tardi. Prima ero meno stanco e avrei saputo dirti molte cose.

      Pensai che volesse ancora seccarmi perché ero venuto tardi e gli proposi di lasciare quella discussione per il giorno dopo.

      – Non si tratta di una discussione – rispose egli trasognato – ma di tutt’altra cosa. Una cosa che non si può discutere e che saprai anche tu non appena te l’avrò detta. Ma il difficile è dirla!

      Qui ebbi un dubbio:

      – Non ti senti bene?

      – Non posso dire di star male, ma sono molto stanco e vado subito a dormire.

      Suonò il campanello e nello stesso tempo chiamò Maria con la voce. Quand’essa venne, egli domandò se nella sua stanza tutto era pronto. S’avviò poi subito strascicando le ciabatte al suolo. Giunto accanto a me, chinò la testa per offrirmi la sua guancia al bacio di ogni sera.

      Vedendolo moversi così malsicuro, ebbi di nuovo il dubbio che stesse male e glielo domandai. Ripetemmo ambedue più volte le stesse parole ed egli mi confermò ch’era stanco ma non malato. Poi soggiunse:

      – Adesso penserò alle parole che ti dirò domani. Vedrai come ti convinceranno.

      – Papà – dichiarai io commosso – ti sentirò volentieri.

      Vedendomi tanto disposto a sottomettermi alla sua esperienza, egli esitò di lasciarmi: bisognava pur approfittare di un momento tanto favorevole! Si passò la mano sulla fronte e sedette sulla sedia sulla quale s’era appoggiato per porgermi la sua guancia al bacio. Ansava leggermente.

      – Curioso! – disse. – Non so dirti nulla, proprio nulla.

      Guardò intorno a sé come se avesse cercato di fuori quello che nel suo interno non arrivava ad afferrare.

      – Eppure so tante cose, anzi tutte le cose io so. Dev’essere l’effetto della mia grande esperienza.

      Non soffriva tanto di non saper esprimersi perché sorrise alla propria forza, alla propria grandezza.

      Io non so perché non abbia chiamato subito il dottore. Invece debbo confessarlo con dolore e rimorso: considerai le parole di mio padre come dettate da una presunzione ch’io credevo di aver più volte constatata in lui. Non poteva però sfuggirmi l’evidenza della sua debolezza e solo perciò non discussi. Mi piaceva di vederlo felice nella sua illusione di essere tanto forte quand’era invece debolissimo. Ero poi lusingato dall’affetto che mi dimostrava manifestando il desiderio di consegnarmi la scienza di cui si credeva possessore, per quanto fossi convinto di non poter apprendere niente da lui. E per lusingarlo e dargli pace gli raccontai che non doveva sforzarsi per trovare subito le parole che gli mancavano, perché in frangenti simili i più alti scienziati mettevano le cose troppo complicate in deposito in qualche cantuccio del cervello perché si semplificassero da sé.

      Egli rispose:

      – Quello ch’io cerco non è complicato affatto. Si tratta anzi di trovare una parola, una sola e la troverò! Ma non questa notte perché farò tutto un sonno, senza il più piccolo pensiero.

      Tuttavia non si levò dalla sedia. Esitante e scrutando per un istante il mio viso, mi disse:

      – Ho paura che non saprò dire a te quello che penso, solo perché tu hai l’abitudine di ridere di tutto.

      Mi sorrise come se avesse voluto pregarmi di non risentirmi per le sue parole, si alzò dalla sedia e mi offerse per la seconda volta la sua guancia. Io rinunziai a discutere e convincerlo che a questo mondo v’erano molte cose di cui si poteva e doveva ridere e volli rassicurarlo con un forte abbraccio. Il mio gesto fu forse troppo forte, perché egli si svincolò da me più affannato di prima, ma certo fu da lui inteso il mio affetto, perché mi salutò amichevolmente con la mano.

      – Andiamo a letto! – disse con gioia e uscì seguito da Maria.

      E rimasto solo (strano anche questo!) non pensai alla salute di mio padre, ma, commosso e – posso dirlo – con ogni rispetto filiale, deplorai che una mente simile che mirava a mète alte, non avesse trovata la possibilità di una coltura migliore. Oggi che scrivo, dopo di aver avvicinata l’età raggiunta da mio padre, so con certezza che un uomo può avere il sentimento di una propria altissima intelligenza che non dia altro segno di sé fuori di quel suo forte sentimento. Ecco: si dà un forte respiro e si accetta e si ammira tutta la natura com’è e come, immutabile, ci è offerta: con ciò si manifesta la stessa intelligenza che volle la Creazione intera. Da mio padre è certo che nell’ultimo istante lucido della sua vita, il suo sentimento d’intelligenza fu originato da una sua improvvisa ispirazione religiosa, tant’è vero che s’indusse a parlarmene perché io gli avevo raccontato di essermi occupato delle origini del Cristianesimo. Ora però so anche che quel sentimento era il primo sintomo dell’edema cerebrale.

      Maria venne a sparecchiare e a dirmi che le sembrava che mio padre si fosse subito addormentato. Così andai a dormire anch’io del tutto rasserenato. Fuori il vento soffiava e urlava. Lo sentivo dal mio letto caldo come una ninna nanna che s’allontanò sempre di più da me, perché mi immersi nel sonno.

      Non so per quanto tempo io abbia dormito. Fui destato da Maria. Pare che più volte essa fosse venuta nella mia stanza a chiamarmi e fosse poi corsa via. Nel mio sonno profondo ebbi dapprima un certo turbamento, poi intravvidi la vecchia che saltava per la camera e infine capii. Mi voleva svegliare, ma quando vi riuscì, essa non era più nella mia stanza. Il vento continuava a cantarmi il sonno ed io, per essere veritiero, debbo confessare che andai alla stanza di mio padre col dolore di essere stato strappato dal mio sonno. Ricordavo che Maria vedeva sempre mio padre in pericolo. Guai a lei se egli non fosse stato ammalato questa volta!

      La stanza di mio padre, non grande, era ammobiliata un po’ troppo. Alla morte di mia madre, per dimenticare meglio, egli aveva cambiato di stanza, portando con sé nel nuovo ambiente più piccolo, tutti i suoi mobili. La stanza illuminata scarsamente da una fiammella a gas posta sul tavolo da notte molto basso, era tutta in ombra. Maria sosteneva mio padre che giaceva supino, ma con una parte del busto sporgente dal letto. La faccia di mio padre coperta di sudore rosseggiava causa la luce vicina. La sua testa poggiava sul petto fedele di Maria. Ruggiva dal dolore e la bocca era tanto inerte che ne colava la saliva giù per il mento. Guardava immoto la parete di faccia e non si volse quand’io entrai.

      Maria mi raccontò di aver sentito il suo lamento e di essere arrivata in tempo per impedirgli di cadere dal letto. Prima – essa assicurava – egli s’era agitato di più, mentre ora le pareva relativamente tranquillo, ma non si sarebbe rischiata di lasciarlo solo. Voleva forse scusarsi di avermi chiamato mentre io già avevo capito che aveva fatto bene a destarmi. Parlandomi essa piangeva, ma io ancora non piansi con lei ed anzi l’ammonii di stare zitta e di non aumentare coi suoi lamenti lo spavento di quell’ora. Non avevo ancora capito tutto. La poverina fece ogni sforzo per calmare i suoi singulti.

      M’avvicinai all’orecchio di mio padre e gridai:

      – Perché ti lamenti, papà? Ti senti male?

      Credo ch’egli sentisse, perché il suo gemito si fece più fioco ed egli stornò l’occhio dalla parete di faccia come se avesse tentato di vedermi; ma non arrivò a rivolgerlo a me. Più volte gli gridai nell’orecchio la stessa domanda e sempre con lo stesso esito. Il