Jarro

Il processo Bartelloni


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che è stata negletta in tutta l’inquisizione.... cioè se egli abbia sospetti su colui, che può aver tentato di assassinare il signor Gandi.

      – Signor avvocato! – rispose il presidente – non è questa domanda, che io creda strettamente necessaria, pure… per massima deferenza alla difesa, io la farò.

      Ed il presidente formulò la domanda.

      Lucertolo ascoltava ansioso.

      Egli aveva indirettamente suggerito più volte a Nello di accusare il Carminati.

      Aspettava dunque la risposta con impazienza.

      III

      Il birro era sui carboni ardenti.

      Ma Nello restò muto.

      I suoi occhi si erano posati sopra un tavolino sul quale si trovavano i corpi del delitto: il pugnale, l’orologio, la catena, lo spillo, trovati sotto il materasso di Nello.

      Egli ora guardava quegli oggetti con avidità; la vista di quei metalli luccicanti lo occupava, lo distraeva.

      – Vede.... signor avvocato – osservò il presidente, rivolto all’avvocato Arzellini – l’inquisito non dà alcuna risposta.

      – Prego V. S. di voler rinnovare la domanda.

      Il presidente aderì.

      L’inquisito fece un lieve moto con le labbra.

      Tutti credevano che questa volta avrebbe parlato.

      Ma non gli uscì di bocca un solo accento e continuò a guardare i metalli.

      Sullo stesso tavolino erano gettati da un lato le vesti, il cappello del pittore Roberto Gandi, le vesti di Nello, e sotto il tavolino, in una cassetta, erano ammonticchiati i sozzi e sucidi panni insanguinati, che a Nello servivano di coperte nel suo giaciglio e fra’ quali era stato trovato ravviluppato, dagli esecutori nella notte del delitto.

      Il presidente rivolse altre domande all’inquisito, ma questi rispose in modo subdolo, indeterminato.

      Fu concordato, con l’assenso del difensore, che poteva ormai considerarsi l’interrogatorio come esaurito.

      – Il signor Avvocato Fiscale ha la parola! – disse il presidente, voltandosi verso il banco al quale sedeva il primo magistrato del Fisco.

      Il magistrato si alzò, e appoggiando le mani all’orlo del banco, protendendo la persona alquanto in avanti, pronunziò, con vibrato accento, e con voce sonora le seguenti parole:

      /* «Signori, presidente e auditori! */

      «Nei molti anni, dacchè esercito l’alto mio ministero, di rado mi fu dato studiar causa nella quale apparissero più chiari indizi della colpabilità dell’inquisito.

      «La pubblica discussione ha sempre più messo in evidenza l’esattezza dei precedenti atti processuali.

      «Giammai la mia coscienza è stata più tranquilla nel chiedere la esemplare punizione di un reo.

      «Vindice della società offesa, io ho il dovere di parlare con severità. Il delitto sul quale voi, esimii signori, dovete dare il vostro onorando iudicato, è de’ più nefandi e odiosi, che da molti anni si sieno commessi nella nostra città: è tale, che quasi toglie ad una mite popolazione il suo vanto di miti, temperati costumi e ci mette in mala vista fra le altre genti.»

      Dopo essersi addentrato, alla minuta, in certi particolari della causa, l’oratore esclamava:

      «Ah! signori, la causa nella quale io debbo concludere, è una causa tremenda, una di quelle cause per cui il magistrato con secura coscienza può ben parlare di catene e di patibolo!

      «È inutile che io abusi della bontà vostra, cercando di provare con lunghi ragionamenti la responsabilità dell’inquisito.

      «Alle speciose ipotesi di una pazzia incipiente, di uno stato mentale irregolare, rispondono con molta eloquenza le perizie dei medici fiscali.

      «Che cosa potrei io aggiungere a ciò che con tanta limpidezza hanno detto uomini dottissimi?»

      L’avvocato fiscale raccolse alcuni fogli, che aveva dinanzi e ne dette lettura.

      Due medici, fra’ più ragguardevoli che avesse Firenze, asserivano che Nello possedeva compiuta coscienza de’ suoi atti, e che poteva tenersi per fermo avesse agito la notte del 14 gennaio con proposito deliberato, se non con una vera e lunga premeditazione.

      La lettura di tali dichiarazioni produceva nel pubblico il più vivo eccitamento: rendeva sempre più acuta l’avversione contro Nello.

      – Ma abbiamo pure le perizie estragiudiciali! – ribattè l’avvocato Arzellini.

      Il presidente con un gesto benevolo fece cenno al difensore che non interrompesse.

      – Lei parlerà a suo tempo… la prego… potrà dire tutte le sue ragioni – aggiunse l’egregio magistrato.

      Si capiva che il presidente, nonostante la sua apparente severità, era già guadagnato o quasi alla causa di Nello.

      Uomo di mente elevata, di molta esperienza, educato alla lettura delle opere dei filosofi, di intelligenza facile e pronta, aveva già capito ciò che i suoi colleghi non capivano: cioè che l’avvocato Arzellini combatteva in quei momenti per disputare un disgraziato, se non al patibolo, ad una pena che per lui sarebbe stata equivalente alla morte.

      L’Avvocato fiscale riprese il suo discorso.

      Descrisse con grande sfoggio di colori, con tutta la pompa retorica e declamatoria, della quale si faceva allora un immenso scupìo nei tribunali, la scena avvenuta tra il Vicolo della Luna e Piazza Luna la notte in cui era stato commesso il delitto.

      Cercò di rimettere in azione quella cupa tragedia; parlò dell’assassinato, giovane, bello, famoso, caro a tutti, ospitato con orgoglio nella città, visitato, ricercato da cospicui personaggi, amato dal Sovrano, che era stato addoloratissimo del truce misfatto.

      Lo mostrò proditoriamente aggredito, vacillante sul lubrico suolo del Vicolo, piombato a terra, atrocemente trascinato da un punto all’altro, lasciando per tutto quel luogo immondo le traccie del suo nobile sangue, poi spogliato, derubato.

      La sua parola fluida, abbondante, efficace, scuoteva il pubblico, e, quello che più importava, s’insinuava abilmente nell’animo de’ giudici, e per lo meno quattro degli auditori sentivano nascere, svilupparsi potente, irresistibile nei loro intelletti la convinzione della reità di Nello.

      Il rappresentante della legge toccava da maestro, e con peculiare accortezza, tutti i punti della causa, deboli per l’inquisito, raccoglieva di tanto in tanto una falange di argomenti indiziarli e se ne serviva con la bravura di un uomo, abituato a tali conflitti, e che non temeva rivali: memore del dettato sì spesso ripetuto nel foro: Et quæ non prosunt singula, juncta juvant.

      Naturalmente sfuggiva tutta la parte contraddittoria, che doveva poi esser raccolta, sviluppata, con sì valido acume, dal suo grande avversario, l’avvocato Arzellini, del quale però egli cercava con molta finezza screditare in precedenza gli argomenti; supponendo che gli fossero mosse obiezioni a quello che asseriva, e poi confutandole.

      «Per stornare la inquisizione dal suo vero scopo – disse a un certo punto l’Avvocato fiscale – si è voluto far credere che il delitto, consumato nel Vicolo della Luna nella funesta notte del 14 gennaio, non fosse un semplice e volgare latrocinio, ma bensì un delitto cui sia collegato il più poetico, il più forte dei sentimenti umani: – l’amore!

      «Ma come una tale tesi potrà essere sostenuta dalla difesa dell’inquisito?

      «Non distruggerebbe essa a dirittura l’edificio, già così fragilmente architettato, sulla base dell’idiotismo del giudicabile?

      «Si parla di amori… di una donna, che si sarebbe trovata nella stanza misteriosa del Vicolo, che vi avrebbe lasciato fuggendo il velo, del quale aveva coperto il suo volto, prima di recarsi ad un desiderato convegno, di una donna, la cui presenza alla stessa polizia, dopo le sue prime indagini, parve rivelata, oltre che dal velo dimenticato, dalle impronte lasciate da denti affilati e minutissimi