si mise a dimostrare, con la scorta delle perizie estragiudiciali, che lo stato mentale dell’inquisito non era sano. Egli, sin dalla prima fanciullezza, aveva dato prove di demenza.
Accusarlo di simulazione negli interrogatorii, nella sua condotta, era contrario ad ogni dettame della scienza; ad ogni retto criterio.
Come, egli non si era mai smentito, non aveva mai avuto un momento di titubanza, non aveva mai vacillato?
Ormai era incarcerato da mesi, aveva subìto interrogatorii dagli ufficiali della polizia, dai ministri processanti, e alla pubblica udienza.
E sempre, a gran distanza di tempo, si erano riscontrate in lui le medesime, identiche incoerenze. Esse non potevano essere frutto di simulazione, corrispondevano bensì ad una condizione permanente, immutabile, dello stato mentale, morboso dell’individuo.
«Vi fu chi scrisse – osservò l’avvocato Arzellini – un libro intitolato: Della Ciarlataneria degli Eruditi. Dopo ciò che i periti fiscali dissero sulla potenza ragionativa e intellettiva dell’inquisito, si potrebbe a quel libro aggiungerne un altro, intitolandolo: Della Ciarlataneria della Medicina Legale!
«Leggo a pagina 180 negli atti del processo:
«Si ripose in atti una relazione dei medici fiscali signor dottor F*** M*** e dottor F*** S*** del tenore ecc.»
«E leggo più oltre:
– «Presentata la suddetta relazione dai nominati signori dottor F*** M*** e dottor F*** S*** medici fiscali, ai quali letta di parola in parola, e a loro chiara e piena intelligenza come asserirono, quella e suo contenuto con la viva voce, tanto unitamente che separatamente confermarono e ratificarono in tutte le sue parti, con giuramento per me deferitogli, e da essi rispettosamente preso tacta imagine C. J., asserendo di averla firmata di proprio pugno e carattere.» -
«Non era questo il metodo, o signori, che doveva tenersi coi periti nella loro qualità di testimoni. Essi ratificarono prima, e dopo giurarono, e il testimone deve prima giurare, e poi deporre, mentre egli giura de veritate dicenda, e non de veritate jam dicta.
«I periti udiron leggere la loro relazione dall’Attuario, e concordarono i fatti, vale a dire, produssero in atti un attestato scritto, nè come testimoni alle legittime interrogazioni deposero, lo che non ne’ giudizii civili, non ne’ criminali è permesso.
«Ma spingiamo più oltre le osservazioni della difesa.»
L’avvocato Arzellini s’ingolfò quindi in lunghe elaborate e peregrine considerazioni.
Insistè di nuovo specialmente sul fatto che altri che Nello era stato di certo l’assassino del pittore Roberto Gandi, che la poca oculatezza, la negligenza della polizia lo avevan lasciato sfuggire: che i ministri processanti, accecati subito dalle prime prevenzioni, non avevano, con grave jattura, ricercato.
Lucertolo si sarebbe gettato al collo dell’avvocato Arzellini.
Quello per lui era un grand’uomo! Come egli aveva subito indicato, e con quanta chiarezza, i metodi per scoprire il vero colpevole!… Come era fino, giusto, da artista, il suggerimento di fare indagini su chi era entrato, tra la sera e la notte del 14 gennaio, nel raddotto della Palla.
E dire che, lasciamo stare i suoi compagni, ma egli, egli Lucertolo, che si teneva così furbo, così destro, non ci aveva pensato! Da qualche tempo le sue facoltà erano ottuse!
– Ma mi rifarò, mi rifarò! – pensava l’irrequieto e ardente esecutore.
L’avvocato, giunto alla fine della sua orazione, dopo aver esaminato la causa in ogni suo lato e averla esaminata con tutto il calore della sua eloquenza, e la dirittura della sua logica, persuaso di aver luminosamente provato l’innocenza del suo cliente, così terminava:
«Altri che l’inquisito fu il feritore. Questo diverso assassino vi è certo; ma il Fisco si scusa e dice di non vederlo. Vorrà dunque egli valersi delle pene, delle ingiuste sofferenze inflitte al mio cliente come medicina a meglio vederci? E la pena, che tanto desidera pel mio cliente, sul cui capo una deplorevole fatalità accumulò apparenze delittuose, gli dirà forse chi fu il vero autore dell’assassinio?
«Il barbaro conquistatore di Roma, dopo aver convenuto il peso dell’oro, che dovea esser prezzo del suo riscatto, giunta la bilancia alla misura del peso, vi gettò sopra la propria spada per aggiungere un nuovo prezzo al già convenuto, intuonando quell’epifonema terribile: Guai ai vinti!
«Non altrimenti opera il Fisco con l’inquisito. Sostituendo al criterio la forza, getta sulla bilancia della causa per farla preponderare a suo grado un numero di congetture, che la ragione, la equità, e la giustizia rigettano.
«Ove è certa la reità e il reo non men certo, la giustizia inesorabile colpisca il reo, ma ove la reità non abbia altro appoggio che apparenze ingannevoli, sempre tenga di tutto sommo conto la giustizia per non punire, essendo questo il suggerimento della clemenza non già, di cui è vano rammentare ai giudici il nome, ma della scritta ragione, guida indeclinabile di chi accusa, di chi difende, e di chi siede per giudicare.
«Concludo che la Regia Rota debba assolvere il mio cliente.»
L’avvocato Arzellini uscì dalla sala, mentre un domestico gli gettava sulle spalle una grossa pelliccia.
Egli era in preda ad una specie di febbre, tanto aveva parlato con zelo, con convinzione, e commozione, tale era lo sforzo da lui fatto, la tensione della mente in cui aveva perdurato alcune ore.
L’Avvocato fiscale rinunziò a rispondere al difensore. Ripetè in brevissime parole che egli era profondamente convinto della reità dell’inquisito, e aspettava fidente dalla Regia Rota la severa condanna dell’assassino.
Adempite le formalità, il presidente dichiarò levata l’udienza.
L’ora era tarda: gli uscieri già avevano portato i lumi.
La sentenza doveva essere pronunziata, come vedrà il lettore, due giorni dopo.
Subito Lucertolo correva alla Palla per effettuare il piano di guerra, indicato dall’avvocato Arzellini.
Quali persone erano entrate nel raddotto la notte del 14 gennaio?
Fra queste persone ci era Bobi Carminati?
Era espediente lo scoprirlo!
VI
Nello fu ricondotto nel carcere, molto abbattuto, affranto.
Le lunghe ore della udienza, il tormento degli interrogatorii, gli urli e le minaccie del Fisco, i rabbuffi del presidente, le grandi parole commoventi dell’avvocato, i mormorii del pubblico lo avevano stancato, confuso, stordito.
Appena entrato nella prigione, sedette, poi si accasciò come una massa inerte sull’intavolato, che gli serviva di letto, e, senza prender cibo, si addormentò.
Più volte i carcerieri lo udirono la notte urlare, schiamazzare nel sonno.
Lo stolido farneticava, rivedeva le immagini guaste e corrotte dei fatti, che tutta la giornata aveva udito ripetere, raccontare distesamente: un uomo ferito, morente, e poi sangue, pugnale, birri, persecuzioni, giudici, patibolo, altri terribili fantasmi.
La discussione fra gli auditori di Rota per compilare la sentenza fu lunga e tempestosa.
Le varie opinioni furono ventilate con passione; più che con zelo, con acrimonia.
Come già sa il lettore, gli auditori erano sei, il loro modo di giudicare severo, truce, inflessibile, peggio che inesorabile.
«Terminata la sessione, – scrive Agostino Ademollo() – i giudici si ritiravano in segreto e quindi davano la sentenza a pluralità di voti, determinati non già dalla morale convinzione, ma dalla prova o, convinzione legale, resultante dalle carte processuali, il che spesso situava il giudice nella inumana posizione di condannare un inquisito contro di cui concorreva la prova legale, sebbene l’animo suo non fosse convinto della di lui reità…
«Dalla sentenza non si dava appello, nè cassazione. Soltanto si accordava al condannato la facoltà di esperimentare la revisione del giudicato, o la grazia del principe per mezzo di supplica da inviarsi per il canale della