Jarro

Il processo Bartelloni


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è stata in questo processo mal condotta, e senza imparzialità…»

      – Ma, signor avvocato…

      – Qui dunque si vuol violare la mia coscienza?

      – Continui… ma l’avverto di tenersi nei limiti.

      «Sì, la mia coscienza di galantuomo si ribella nel percorrere le carte, preparate nei silenzi della Cancelleria, quelle carte, su cui il Fisco fonda il suo spietato Vangelo!

      «Il Fisco vuole esclusa ogni relazione fra il delitto consumato la notte del 14 gennaio, e la stanza misteriosa, segnata di N. 5, che si apre nel Vicolo della Luna. Ma noi sogniamo, o siamo desti? Assistiamo allo svolgimento di un terribile, serio dramma giudiziario, o all’intrigo di una commedia?»

      Il presidente tornò() a interrompere l’oratore. Di rado gli avvocati davano allora in tali escandescenze, e lo stesso avvocato Arzellini, sebbene noto per una insolita impetuosità, non era mai andato tant’oltre.

      Il presidente lo avvertiva con benevolenza perchè anch’egli si sentiva sempre più propenso in favore di Nello, e la convinzione della innocenza di lui gli si approfondiva nell’animo.

      «Quasi avrei abbandonato tale argomento, – aggiunse l’avvocato Arzellini, – se nelle stesse carte processuali, preparate dagli attuarii, non avessi trovato un gravissimo indizio.

      «E a comprendere che sia gravissimo non vi è bisogno davvero di avere sfogliato i ponderosi volumi de’ Bruni, de’ Bianchi, dei Casonii, de’ Farinacci sulla materia indiziaria.

      «Gli agenti della polizia, allorchè fecero l’accesso nella stanza misteriosa, vi trovarono… fate bene attenzione, o signori… vi trovarono acceso un lume.

      «Dunque quel lume avea servito ad illuminare le carezze, i trasporti di un convegno amoroso… aveva servito ad illuminare qualcuno, che poco innanzi era presente nella stanza, seduto alla tavola sulla quale si trovarono bicchieri sempre umidi del vino versatovi, i dolci a metà morsicchiati…

      «Forse per il Fisco la lampada pendeva accesa da quel soffitto sin dalla creazione del mondo?… Chi dunque si trovava nella stanza, al momento in cui il delitto era consumato dinanzi alla porta, anche ammesso che le persone in tale stanza convenute al delitto sien rimaste estranee?

      «Chi vi si trovava? Quali rumori ha udito? E che cosa ha fatto la polizia, non sapendo scuoprire, perdendo, anzi, a dirittura, le traccie di tal gente?

      «E non basta!

      «Attiguo al luogo del delitto è un infame raddotto.

      «Perchè la polizia non ha spinto oltre quelle infette pareti le sue indagini?

      «Ha forse essa avuto paura, mettendo il piede in quella soglia di sozzure, di contaminarsi, di lasciarvi il proprio candore?

      «Perchè il processo inquisitorio è muto su tutti questi particolari?

      «Perchè noi non sappiamo oggi – e l’elevatissimo accento dell’avvocato scuoteva tutti – chi è entrato nell’immondo raddotto della Palla tra la sera e la notte del 14 gennaio, se qualcuno vi entrò titubante, eccitando sospetti; infine perchè non si è cercato anche là, dove ben potevano trovare, o cercare asilo un delinquente, e i complici, gli ausiliarii di un delinquente?

      «Altra lacuna imperdonabile e di suprema gravità è negli atti.

      «Chi ci dice dove il pittore Gandi abbia passato la sera del 14 gennaio?

      «È vero che egli non poteva parlare, che non si potevano ottener da lui risposte, ma se il suo labbro era muto, perchè la polizia, l’autorità inquisitoria non è eloquente e zelante nel fornirci tutti i particolari della causa, almeno quanto è eloquente e zelante il Fisco nell’accusare questo sfortunato?

      «Sopra un tal punto io debbo esser molto circospetto, alti riguardi mi prescrivono una necessaria discrezione, ma di un indizio molto importante dobbiamo tener conto, che il pittore Roberto Gandi indossava panni umili, dimessi, la sera del delitto… si era insomma travestito!

      «Ciò risulta dagli atti del processo.

      «Ma travestito si era a quale scopo?

      «Vedete quante oscurità; quanti dubbii, quante ambagi solleva questo processo!…

      «Solo il Fisco è sicuro, egli non ama i complicati problemi. Non gli va a grado l’analisi, la quale separa e decompone. Egli vagheggia la sintesi, che tutto riduce ad un’asserzione compatta e unica.

      «Meno a lui piacciono il dubbio, la lentezza di esame e la irresolutezza alla quale conduce. Lo incomoderebbe la titubanza di Ercole al bivio tra i due opposti inviti di Aretea e di Edonide. Valendosi della sua forza, taglia e non scioglie il nodo gordiano.

      «Questa causa gronda da ogni lato di umano sangue!

      «Sia pace dunque al Fisco ed a noi! Bene egli fece a perseguitare nell’inquisito le apparenze di reità, e meglio faremo noi dileguandole. Egli non dubita, come non dee dubitare, delle proprie asserzioni, essendo esse separate e disgiunte, come esser debbono gli articoli dell’accusa, a guisa di chi chiamato non a edificare, a lapidare altrui, è costretto a prendere alla rinfusa una pietra dopo l’altra. Noi raccoglieremo queste pietre per studiarne il peso, la foggia e la tempra, e vedere se, come quelle che Deucalione lanciò, possano acquistare e moto e vita di valutabile indizio.

      «La fattispecie, che ci porge il Fisco nel suo libello, è compendiata, anzi storpiata; bisogna darle una maggiore estensione, che ci scorga passo passo, nel cammino diretto, alla ricerca del vero.

      «Nulla prepara la catastrofe, nulla vi s’incatena, come anello per anello, come causa ed effetto, come provenienza e flusso di antecedenti e conseguenti, perchè anzi dell’effetto, che spunta improvviso, non abbiamo precedenza di causa, e ben possiamo chiamarlo: prolem sine matre creatam!

      «Dove, dite in verità, o giudici, è la causa proporzionata a delinquere? Nec enim, mi è grato ripetere col sommo Farinaccio, factum quaeritur, sed causa faciendi.»

      E qui l’avvocato sviluppava una delle parti più belle, più eloquenti della sua arringa.

      A un certo punto ripigliava in tal modo:

      «L’innocenza non salva dalla sventura, anzi la sventura suol essere dell’innocenza indivisibile compagna. Ben disse l’ingenuo La Fontaine:

      Et c’est d’être innocent que d’être malheureux!

      «Avete trovato alcuni oggetti appartenuti al ferito nascosti nello squallido abituro del mio cliente?

      «Il minor figlio e più caro del credente Giacobbe è sorpreso, avendo presso di sè una preziosa coppa furtiva. Se Iddio nol proteggeva, egli avrebbe dovuto soccombere sotto un’accusa di furto».

      L’avvocato Arzellini combattè uno a uno gli argomenti, contenuti nel libello fiscale; venne ad affermare che non l’inquisito, ma altri era stato l’assassino del pittore Roberto Gandi. Nello, uscito di notte tempo dalla sua catapecchia, si era imbattuto nel cadavere, e da pazzo com’era lo aveva spogliato di alcuni oggetti preziosi, si era tutto imbrattato di sangue, aveva preso il pugnale, tale e quale come avrebbe forse fatto un fanciullo.

      Che Nello avesse come una certa mania pei metalli non era stabilito da una testimonianza così cara al Fisco, e registrata in atti, quella della donna Lazzarini?

      «Essa non ci ha detto – esclamava l’avvocato – che il mio cliente ebbe un giorno diverbio con una bambina di lei per toglierle di mano un pezzo di metallo; e a che motivo, se non agli occhiali d’oro che portava il giudice Buriatti, è dovuta la sua tanto decantata ed esagerata aggressione?

      «Lungi da me l’idea di dir cosa spiacevole a quell’egregio e solerte magistrato, ma l’aggressione non è mai esistita che nella sua eccitata fantasia: mancano di essa, non già le prove, ma perfino gl’indizii più lievi. Ed è chiaro che il mio cliente in un suo vaneggiamento protese la mano soltanto per il metallo prezioso degli occhiali, che a lui apparivano come un trastullo.»

      Nel pubblico molti e molti scuotevano la testa quasi in segno di dileggio per l’insufficienza di tale ragionamento; un osservatore attento avrebbe potuto