Luigi Pirandello

In Silenzio


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con sé, legata, imbavagliata, perché io gridavo, lo mordevo… Dopo tre mesi, la giustizia venne a scovarlo là e lo richiuse in galera, dove morì poco dopo. Ma rimasi incinta. Ah, signorino mio, Le giuro che mi sarei strappate le viscere: mi pareva che stessi a covarci un mostro! Sentivo che non me lo sarei potuto vedere tra le braccia. Al solo pensiero che avrei dovuto attaccarmelo al petto, gridavo come una pazza. Fui per morire, quando lo misi alla luce. Mi assisteva mia madre, sant’anima, che non me lo fece neanche vedere: lo portò subito dai parenti di lui, che lo allevarono… Ora non Le pare, signor dottore ch’io possa dire davvero ch’egli non è figlio mio?

      Il giovane dottore stette un pezzo senza rispondere, assorto a pensare; poi disse:

      – Ma lui, in fondo, vostro figlio, che colpa ha?

      – Nessuna! – rispose subito la vecchia. – E quando mai, difatti, le mie labbra hanno detto una parola sola contro di lui? Mai, signor dottore! Anzi… Ma che ci posso fare, se non resisto a vederlo neanche da lontano! È tutto suo padre, signorino mio; nelle fattezze, nella corporatura finanche nella voce… Mi metto a tremare, appena lo vedo, e sudo freddo! Non sono io; si ribella il sangue, ecco! Che ci posso fare?

      Attese un po’, asciugandosi gli occhi col dorso delle mani; poi, temendo che la comitiva degli emigranti partisse da Farnia senza la lettera per i suoi figliuoli veri, per i suoi figliuoli adorati, si fece coraggio e disse al dottore ancora assorto:

      – Se vossignoria volesse farmi la carità che mi ha promesso…

      E come il dottore, riscotendosi, le disse che era pronto si accostò con la seggiola alla scrivania e, ancora una volta, con la stessa voce di lagrime, cominciò a dettare:

      – Cari figli…

      LA MORTE ADDOSSO

      – Ah, lo volevo dire! Lei dunque un uomo pacifico è… Ha perduto il treno?

      – Per un minuto, sa? Arrivo alla stazione, e me lo vedo scappare davanti.

      – Poteva corrergli dietro!

      – Già. È da ridere, lo so. Bastava, santo Dio, che non avessi tutti quegl’impicci di pacchi, pacchetti, pacchettini… Più carico d’un somaro! Ma le donne – commissioni… commissioni… – non la finiscono più! Tre minuti, creda, appena sceso dalla vettura, per dispormi i nodini di tutti quei pacchetti alle dita: due pacchetti per ogni dito.

      – Doveva esser bello… Sa che avrei fatto io? Li avrei lasciati nella vettura.

      – E mia moglie? Ah sì! E le mie figliuole? E tutte le loro amiche?

      – Strillare! Mi ci sarei spassato un mondo.

      – Perché lei forse non sa che cosa diventano le donne in villeggiatura!

      – Ma sì che lo so! Appunto perché lo so. Dicono tutte che non avranno bisogno di niente.

      – Questo soltanto? Capaci anche di sostenere che ci vanno per risparmiare! Poi, appena arrivano in un paesello qua dei dintorni, più brutto è, più misero e lercio, e più imbizzariscono a pararlo con tutte le loro galenterie più vistose! Eh, le donne, caro signore! Ma del resto, è la loro professione… – «Se tu facessi una capatina in città, caro! Avrei proprio bisogno di questo… di quest’altro… e potresti anche, se non ti secca (caro, il se non ti secca)… e poi, giacché ci sei, passando di là…» – Ma come vuoi, cara mia, che in tre ore ti sbrighi tutte codeste faccende? – «Uh, ma che dici? Prendendo una vettura…» – Il guajo è, capisce?, che dovendo trattenermi tre ore sole, sono venuto senza le chiavi di casa.

      – Oh bella! E perciò…

      – Ho lasciato tutto quel monte di pacchi e pacchetti in deposito alla stazione; me ne sono andato a cenare in una trattoria, poi, per farmi svaporar la stizza, a teatro. Si crepava dal caldo. All’uscita, dico, che faccio? Andarmene a dormire in un albergo? Sono già le dodici; alle quattro prendo il primo treno; per tre orette di sonno, non vale la spesa. E me ne sono venuto qua. Questo caffè non chiude, è vero?

      – Non chiude, nossignore. E così, ha lasciato tutti quei pacchetti in deposito alla stazione?

      – Perché? Non sono sicuri? Erano tutti ben legati…

      – No no, non dico! Eh, ben legati, me l’immagino, con quell’arte speciale che mettono i giovani di negozio nell’involtare la roba venduta… Che mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rosea, levigata… ch’è per sé stessa un piacere a vederla… così liscia, che uno ci metterebbe la faccia per sentirne la fresca carezza… La stendono sul banco e poi, con garbo disinvolto, vi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben ripiegata. Levano prima da sotto, col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l’altro e ci fanno anche, con svelta grazia, una rimboccaturina, come un di più, per amore dell’arte; poi ripiegano da un lato e dall’altro a triangolo e cacciano sotto le due punte, allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrere quanto basta a legar l’involto, e legano così rapidamente, che lei non ha neanche il tempo d’ammirar la loro bravura, che già si vede presentare il pacco col cappio pronto a introdurvi il dito.

      – Eh, si vede che lei ha prestato molta attenzione ai giovani di negozio…

      – Io? Caro signore, giornate intere ci passo. Sono capace di stare anche un’ora fermo a guardare dentro una bottega, attraverso la vetrina. Mi ci dimentico. Mi sembra d’essere, vorrei essere veramente quella stoffa là di seta… quel bordatino… quel nastro rosso o celeste che le giovani di merceria, dopo averlo misurato sul metro, ha visto come fanno? Se lo raccolgono a numero otto intorno al pollice e al mignolo della mano sinistra, prima d’incartarlo… Guardo il cliente o la cliente che escono dalla bottega con l’involto o appeso al dito o in mano o sotto il braccio… li seguo con gli occhi, finché non li perdo di vista… immaginando… – uh, quante cose immagino! Lei non può farsene un’idea. Ma mi serve. Mi serve questo.

      – Le serve? Scusi… che cosa?

      – Attaccarmi così, dico con l’immaginazione… attaccarmi alla vita, come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata. Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione… aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… ma non della gente che conosco. No no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse… una nausea… Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! Fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello, ci vivo, ci respiro, fino ad avvertire.. sa quel particolare alito che cova in ogni casa? Nella sua nella mia… Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più per ché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì…

      – Sì, perché… dico, dev’essere un bel piacere, questo che lei prova, immaginando tante cose…

      – Piacere? Io?

      – Già… mi figuro…

      – Ma che piacere! Mi dica un po’. È stato mai a consulto da qualche medico bravo?

      – Io no, perché? Non sono mica malato!

      – No no! Glielo domando per sapere se ha mai veduto in casa di questi medici bravi la sala dove i clienti stanno ad aspettare il loro turno per esser visitati.

      – Ah, sì… mi toccò una volta accompagnare una mia figliuola che soffriva di nervi.

      – Bene. Non voglio sapere. Dico, quelle sale… Ci ha fatto attenzione? Quei divani di stoffa scura, di foggia antica… quelle seggiole imbottite, spesso scompagne… quelle poltroncine… È roba comprata di combinazione, roba di rivendita, messa lì per i clienti; non appartiene mica alla casa. Il signor dottore ha per sé, per le amiche della sua signora, un ben altro salotto, ricco, splendido. Chi sa come striderebbe qualche seggiola, qualche poltroncina di quel salotto portata qua nella sala dei clienti, a cui basta quell’arredo così, alla buona. Vorrei sapere se lei, quando andò per la sua figliuola, guardò attentamente la poltrona o la seggiola su cui stette seduto, aspettando.

      – Io