Emilio Salgari

Alla conquista di un impero


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gli autori del furto?

      – Metteranno a soqquadro la città intera e lanceranno nelle campagne tutta la cavalleria, – rispose Kaksa Pharaum.

      – Allora possiamo essere sicuri di non venire disturbati, – disse il portoghese sorridendo. – Sono già le otto: possiamo andare a trovar Surama e fare un giro per la città.

      Vedremo così l’effetto che avrà prodotto il furto della famosa pietra. —

      Staccò dalla parete un altro paio di pistole, che si mise nella larga fascia rossa, si mise in testa un elmo di tela bianca adorno d’un velo azzurro, che gli dava l’aspetto d’un vero inglese in viaggio attraverso il mondo e fece atto d’uscire insieme a Sandokan ed a Tremal-Naik che si erano pure provveduti d’armi.

      – Mylord, – disse il ministro, – ed io?

      – Voi, Eccellenza, rimarrete qui sotto buona guardia. Non abbiamo ancora terminato le nostre faccende, e poi se vi mettessimo in libertà, correreste subito dal principe.

      – Io mi annoio qui ed ho molti affari importanti da sbrigare. Sono il primo ministro dell’Assam.

      – Lo sappiamo, Eccellenza. D’altronde se volete cacciare la noia, fumate, bevete, e mangiate. Non avete altro che da ordinare. —

      Il povero ministro, comprendendo che avrebbe perduto inutilmente il suo tempo, si lasciò ricadere sulla sedia mandando un sospiro così lungo che avrebbe commossa perfino una tigre, ma che non ebbe nessun effetto sull’animo di quel diavolo di portoghese.

      Quando furono fuori del tempio, trovarono Kammamuri sempre seduto dinanzi ad un cespuglio, col suo berretto rosso ed azzurro sul capo, il corpo avvolto in un semplice pezzo di tela, con una corona ed un bastone in mano: era il costume dei fakiri biscnub, specie di pellegrini erranti che sono però tenuti in molta considerazione nell’India, avendo quasi tutti appartenuto a classi agiate.

      – Nulla di nuovo, amico? – gli chiese Yanez.

      – Non ho udito che le urla stonate d’un paio di sciacalli i quali si sono divertiti a offrirmi, senza richiesta, una noiosissima serenata.

      – Seguici a distanza e raccogli le dicerie che udrai. Se non potrai seguire il nostro mail-cart non importa. Ci rivedremo più tardi.

      – Sì, signor Yanez. —

      Il portoghese ed i suoi due amici si diressero verso un gruppo di palme dinanzi a cui stava fermo uno di quei leggeri veicoli chiamati dagli anglo-indiani mail-cart, che vengono usati per lo più nei servizi postali.

      Era però di dimensioni più vaste degli ordinari, e sulla cassa posteriore vi potevano stare comodamente anche tre persone invece d’una.

      Era tirato da tre bellissimi cavalli che pareva avessero il fuoco nelle vene e che un malese penava a frenare.

      Yanez salì al posto del cocchiere, Sandokan e Tremal-Naik di dietro e la leggera vettura partì rapida come il vento, avviandosi verso le parti centrali della città.

      I mail-cart vanno sempre a corsa sfrenata come le troike russe e tanto peggio per chi non è lesto a evitarle.

      Attraversano le pianure come uragani, salgono le più aspre montagne, le discendono con eguale velocità, specialmente quelle adibite al servizio della posta. Sono guidate da un solo indiano, munito d’una frusta a manico corto, che non lascia un momento in riposo, perché non deve arrestarsi per nessun motivo.

      Quelle corse però non sono scevre di pericoli. Avendo quelle vetture le ruote alte e la cassa senza molle, subiscono dei trabalzi terribili e se uno volesse parlare correrebbe il rischio di troncarsi, coi propri denti, la lingua. Yanez, come abbiamo detto, aveva lanciato quella specie di birroccio a gran corsa, facendo scoppiettare fortemente la frusta per avvertire i passanti a tenersi in guardia.

      I tre cavalli, che balzavano come se avessero le ali alle zampe, divoravano lo spazio come saette, nitrendo rumorosamente.

      Bastarono dieci minuti perché il mail-cart si trovasse nelle vie centrali di Gauhati.

      Yanez ed i suoi compagni notarono subito un’animazione insolita: gruppi di persone si formavano qua e là discutendo animatamente, con larghi gesti e anche sulle porte dei negozi era un bisbigliare incessante fra i proprietari ed i loro avventori.

      Si leggeva sul viso di tutta quella gente impresso un vero sgomento.

      Yanez, che aveva frenati i cavalli onde non storpiare qualche passante, si era voltato verso i suoi due amici strizzando loro l’occhio.

      – La terribile notizia si è già sparsa, – rispose la Tigre della Malesia, sorridendo. – Dove ci conduci?

      – Da Surama per ora.

      – E poi?

      – Vorrei vedere quel maledetto favorito del rajah, se mi si presentasse l’occasione.

      – Uhm! Sai che il principe non vuol vedere nessun inglese alla sua corte.

      – Eppure dovrà ricevermi e con grandi onori, – disse Yanez.

      – Ed in quale maniera?

      – Non ho forse la pietra in mia mano?

      – Che diventi un talismano?

      – Fors’anche di più, mio caro Sandokan. Oh! Che cosa c’è? —

      Due indiani s’avanzavano fra la folla, l’uno lanciando di quando in quando delle note rumorose che ricavava da una lunghissima tromba di rame e l’altro che scuoteva furiosamente una gautha, ossia uno di quei campanelli di bronzo ornati con una testa che ha due ali e che vengono adoperati nelle cerimonie religiose per convocare i fedeli.

      Li seguiva un soldato del rajah, con ampi calzoni bianchi, la casacca rossa con alamari gialli e che portava una bandiera bianca con nel mezzo dipinto un elefante a due teste.

      – Questi sono araldi del principe, – disse Tremal-Naik. – Che cosa annunceranno?

      – Io lo indovino di già, – disse Yanez, fermando la vettura. – È una cosa che riguarda noi. —

      I tre araldi, dopo aver assordato i vicini che si erano radunati in gran numero attorno a loro, si erano pure fermati ed il soldato che doveva avere dei polmoni di ferro, si era messo a urlare:

      «S. M. il principe Sindhia, signore dell’Assam, avverte il suo fedele popolo che offrirà onori e ricchezze a chi saprà dare indicazioni sui miserabili che hanno rubata la pietra di Salagraman dalla pagoda di Karia. Ho parlato per la bocca del potentissimo rajah».

      – Onori e ricchezze, – mormorò Yanez. – A me basteranno i primi per ora. Il resto verrà più tardi, te lo assicuro, mio caro Sindhia.

      Quelle però saranno per la mia futura moglie. —

      Lasciò passare i banditori che avevano ripresa la loro musica infernale e lanciò i cavalli a piccolo trotto, percorrendo successivamente parecchie vie molto larghe, cosa piuttosto rara nelle città indiane che hanno stradicciuole tortuose come quelle delle città arabe e anche poco pulite.

      – Ci siamo, – disse ad un tratto, fermando con uno strappo violento i tre ardenti corsieri.

      Si era fermato dinanzi ad una casa di bella apparenza, che sorgeva, come un gran dado bianco, fra otto o dieci colossali tara che l’ombreggiavano da tutte le parti.

      Solo a vederla si capiva che era un’abitazione veramente signorile, essendo perfettamente isolata ed avendo porticati, logge e terrazze per poter dormire all’aperto durante i grandi calori.

      Tutte le abitazioni dei ricchi indù sono bellissime e tenute anche con molta cura. Devono avere cortili, giardini, cisterne d’acqua e fontane non solo nelle stanze bensì anche all’entrata e grandi ventole mosse a mano dai servi onde regni una continua frescura.

      Devono anche avere intorno delle piccole kas khanays ossia casette di paglia o piuttosto di radici odorose, costruite nel mezzo d’un tratto di terra erbosa e sempre in prossimità d’una tank ossia fontana onde la servitù possa comodamente lavarsi.

      Udendo il fracasso prodotto dai tre cavalli, due