Emilio Salgari

Alla conquista di un impero


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– chiese brevemente il portoghese saltando a terra.

      – È nella sala azzurra, capitano Yanez, – rispose uno dei due malesi.

      – Occupatevi dei cavalli.

      – Sì, capitano. —

      Salì i quattro gradini seguito da Tremal-Naik e da Sandokan e attraversato un corridoio si trovò in un vasto cortile, circondato da eleganti porticati sorretti da esili colonne.

      Nel mezzo, da una grande coppa di pietra, zampillava altissimo un getto d’acqua.

      Yanez passò sotto il porticato di destra e si fermò dinanzi ad una porta dove stavano raggruppate delle ragazze indiane.

      – Avvertite la padrona, – disse loro.

      Una giovane aprì invece senz’altro la porta, dicendo:

      – Entra, sahib: ti aspetta. —

      Yanez ed i suoi compagni si trovarono in un elegantissimo salotto che aveva le pareti tappezzate di seta azzurra ed il pavimento coperto da un sottile materasso che si estendeva fino ai quattro angoli.

      Tutto all’intorno vi erano dei divanetti di seta, con ricami d’oro e d’argento di squisita fattura, e larghi guanciali di raso fiorato appoggiati contro le pareti onde i visitatori potessero sdraiarvisi comodamente.

      All’altezza d’un metro, s’aprivano nelle muraglie parecchie nicchie dove si vedevano dei vasi cinesi pieni di fiori che esalavano acuti profumi.

      Mobili nessuno, eccettuato uno sgabello collocato proprio nel mezzo della stanza su cui stavano dei bicchieri ed un fiasco di vetro rosso racchiuso entro un’armatura d’oro cesellata, e col collo lunghissimo.

      Una bellissima giovane, dalla pelle leggermente abbronzata, dai lineamenti dolci e fini, cogli occhi nerissimi ed i capelli lunghi intrecciati con fiori di mussenda e gruppettini di perle, si era prontamente alzata.

      Uno splendido costume tutto di seta rosa, con ricami azzurri, copriva il suo corpo sottile come un giunco, pur essendo squisitamente modellato, lasciando vedere l’estremità dei calzoncini di seta bianca che s’allargavano su due graziose babbucce di pelle rossa con ricami d’argento e la punta rialzata.

      – Ah! Miei cari amici! – aveva esclamato, muovendo a loro incontro colle mani tese.

      – Anche tu, Tremal-Naik! Come sono felice di rivederti! Lo sapevo già che non saresti rimasto sordo all’appello dei tuoi vecchi compagni!

      – Quando si tratta di dare un trono a Surama, Tremal-Naik non rimane inoperoso, – rispose il bengalese stringendo calorosamente la piccola mano della bella indiana. – Se Moreland e Darma non fossero in viaggio per l’Europa sarebbero qui anche loro.

      – Come l’avrei veduta volentieri tua figlia Darma!

      – La riceverai alla tua corte, quando tornerà, – disse Yanez. – Orsù, Surama, da’ da bere agli amici.

      Le vie di Gauhati sono molto polverose e la gola si secca presto.

      – A te, mio dolce signore, il tuo liquore favorito – disse la giovane indiana prendendo il fiasco ed empiendo i bicchieri di cristallo rosa d’un liquore color dell’ambra.

      – Alla salute della futura principessa dell’Assam, – disse Sandokan.

      – Non così presto, – rispose Surama, ridendo.

      – E che! Vorresti tu, piccina, che noi avessimo lasciato il Borneo ed i nostri prahos e gli amici per venire a vedere solamente le bellezze poco interessanti della tua futura capitale?

      Quando noi ci muoviamo facciamo sempre qualche grosso guasto, è vero Yanez?

      – Non siamo sempre noi le vecchie tigri di Mompracem? – rispose il portoghese. – Dove piantiamo le unghie la preda non scappa più.

      Ne vuoi una prova? Abbiamo già nelle nostre mani la famosa pietra di Salagraman.

      – Quella del capello di Visnù?

      – Sì, Surama.

      – Di già?

      – Diamine! Mi era necessaria per introdurmi a corte.

      – Ed il merito è tutto del tuo fidanzato, – disse Sandokan. – Yanez invecchia ma la sua straordinaria fantasia rimane sempre giovane.

      – E potremo finalmente conoscere i tuoi famosi disegni? – chiese Tremal-Naik. – Io continuo a rompermi inutilmente la testa e guastarmi il cervello senza riuscire a trovare alcuna relazione fra quella dannata conchiglia e la caduta del rajah.

      – Non è ancora tempo, – rispose Yanez. – Domani però saprai qualche cosa di più.

      – È inutile che tu lo tenti, amico Tremal-Naik, – disse Sandokan. – Noi ne sapremo qualche cosa quando sarà giunto il momento di rovesciare contro le guardie reali i nostri trenta uomini e di sguainare le nostre scimitarre. È vero, Yanez?

      – Sì – rispose il portoghese, sorridendo. – Quel giorno non sarà però molto vicino.

      Con quel Sindhia dovremo procedere molto cautamente. Non dobbiamo dimenticarci che siamo soli qui e che non possiamo contare sull’appoggio del governo inglese.

      Non dubitiamo però sull’esito finale. O Surama riavrà la corona o noi non saremo più le terribili tigri di Mompracem.

      – Ah mio signore! – esclamò la giovine indiana fissando sul portoghese i suoi profondi e dolcissimi occhi. – Tu la dividerai con me, è vero?

      – Io! Sarai tu, fanciulla, che me ne darai un pezzo.

      – Tutta insieme al mio cuore, Yanez.

      – Sta bene, aspettiamo però di levarla, dalla testa di quel briccone. Pagherà ben cara la cattiva azione che ti ha usata.

      Lui ti ha venduta come una miserabile schiava ai thugs per fare di te, principessa, una bajadera; un giorno venderemo anche lui.

      – Purché non faccia la fine della Tigre dell’India, – disse Sandokan con accento quasi feroce. – Ci sarò anch’io quel giorno! —

      7. Il rajah dell’Assam

      L’indomani, due ore dopo il mezzodì, un drappello che destava non poca curiosità fra gli sfaccendati che ingombravano le vie della capitale dell’Assam, s’avanzava a passo militare verso il grandioso palazzo del rajah che torreggiava sulla immensa piazza del mercato.

      Si componeva di sette persone: d’un inglese, più o meno autentico, vestito correttamente di bianco con un cappello di tela grigia adorno d’un gran velo azzurro che gli scendeva fino al di sotto della cintura, e di sei malesi, vestiti però all’indiana, con casacche verdi ricamate, ampi calzoni rossi, grandi turbanti in testa di seta variegata e armati di carabine splendide dalle canne rabescate ed i calci intarsiati d’avorio e di madreperla, pistole a doppia canna alla cintura e scimitarre al fianco.

      Erano tutti begli uomini, d’aspetto feroce, membruti e dagli occhi cupi e sinistri. Non erano che sei, eppure dal loro aspetto si comprendeva facilmente che non avrebbero dato indietro nemmeno dinanzi ad una compagnia di cipay bengalesi.

      Giunti dinanzi al palazzo reale, che era guardato da un drappello di guardie, armate di lance che avevano la lama larghissima, l’inglese arrestò con un gesto i suoi uomini.

      – Che cosa vuoi sahib? – chiese il comandante delle guardie, avanzandosi verso l’inglese, mentre i suoi uomini mettevano le picche in resta, come se si preparassero a respingere un assalto.

      – Vedere rajah – rispose Yanez.

      – È impossibile, sahib.

      – Perché?

      – Il rajah sta colle sue donne.

      – Io essere grande mylord inglese amico della regina ed imperatrice Indie. Tutte porte aprirsi davanti a me mylord John Moreland.

      – Il rajah non ama ricevere gente dalla pelle bianca sahib.

      – No, sahib,