Emilio Salgari

Alla conquista di un impero


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però quella tigre mi è necessaria, noi la prenderemo, – disse Yanez.

      – Tu diventi incontentabile, amico – disse Sandokan, ridendo. – Prima era la pietra di Salagraman che ti era necessaria, oggi è una tigre e domani cosa vorrai?

      – La testa del rajah, – rispose Yanez celiando.

      – Oh per quella, ci penso io. Un buon colpo di scimitarra e te la porto ancora quasi viva.

      – E i seikki che vegliano sul principe, non li conti tu.

      – Ah sì! Mi hai parlato di quei guerrieri. Che gente sono, amico Tremal-Naik? Tu devi conoscerli un po’.

      – Guerrieri valorosi.

      – Incorruttibili?

      – Eh! Secondo, – rispose il bengalese. – Non devi dimenticare, innanzi tutto che sono mercenari.

      – Ah! – fece Sandokan.

      – Ehi fratellino! – esclamò Yanez. – Che cosa t’interessano quei seikki?

      – Tu hai le tue idee, io ho le mie, – rispose la Tigre della Malesia, continuando a fumare. – Sono anche quelli adoratori di Visnù e delle pietre di Salagraman, amico Tremal-Naik?

      – Non adorano né Siva, né Brahma, né Visnù, né Budda, – rispose il bengalese. – Essi non credono che in Nanek, un religioso che sul principio del secolo decimosesto si fece un gran nome e che fondò una nuova religione.

      – Vorresti diventare anche tu un seikko.

      – Non glielo consiglierei, – disse Tremal-Naik, scherzando – perché sarebbe costretto, per essere ammesso a quella setta religiosa, a bere dell’acqua che ha servito a lavare i piedi e le unghie al sacerdote.

      – Ah! Porci! – esclamò Yanez.

      – Ed a mangiare servendosi di un dente di cinghiale, almeno per le prime volte.

      – Perché? – chiese Sandokan.

      – Per abituarsi a superare la ripugnanza che tutti i mussulmani hanno pei maiali, – rispose Tremal-Naik.

      – Se lo terranno per loro il dente perché io non ho alcun desiderio di diventare un seikko, – disse la Tigre della Malesia. – Ho semplicemente un’idea verso quelle guardie. Bah! Ci penseremo su.

      Siamo nei boschi bassi. Apriamo gli occhi. È in questi, è vero Tremal-Naik, che preferiscono abitare quei terribili solitari?

      – Sì, le macchie dei banani e le terre umide delle grandi erbe, – rispose il bengalese.

      – Teniamoci in guardia dunque. —

      I tre elefanti, che procedevano sempre di buon passo, erano giunti in una immensa pianura che era interrotta qua e là da gruppi di mindi, arbusti non più alti di due o tre metri, dalla corteccia bianchissima e lucente ed i rami sottilissimi; da piccoli banani e da piccole macchie di butee frondose, dal tronco nodoso e robusto, coronato da un folto padiglione di foglie vellutate d’un verde azzurrognolo e sotto le quali pendevano degli enormi grappoli d’una splendida tinta cremisina.

      A grandi distanze, e per lo più in mezzo a piccole piantagioni d’indaco e ombreggiate da cespugli di mangifere, si scorgeva qualche capanna. Animali invece non se ne vedevano: solamente degli stormi di bulbul, quei piccoli, leggiadri e battaglieri rosignuoli indiani, volavano via all’avvicinarsi degli elefanti e dei cani, mostrando le loro penne picchiettate e la loro coda rossa.

      – Che sia questo il regno della tigre nera? – chiese Yanez.

      – Lo sospetto, – rispose Tremal-Naik. – Vedo laggiù degli stagni e quelle brutte bestie amano l’acqua perché sanno che le antilopi vanno a dissetarsi dopo il tramonto.

      – Che riusciamo a scoprirla prima che la notte scenda?

      – Uhm! Lo dubito.

      – Le prepareremo un agguato.

      – Perderesti inutilmente il tuo tempo. Le kala-bâgh non si lasciano sorprendere e potrai mettere capretti finché vorrai e anche dei maiali, senza deciderle ad avvicinarsi.

      – Aspettiamo – concluse Yanez. – Noi non abbiamo fretta. —

      Fino al mezzodì gli elefanti continuarono ad avanzare attraverso a quella pianura che pareva che non dovesse finire mai, passando fra i gruppi di banani, di mindi e di mangifere, senza aver mai dato alcun segno di inquietudine; poi il maggiordomo che montava un magnifico makna, ossia un elefante maschio senza zanne, diede il segnale della fermata per servire la colazione agli ospiti del suo signore.

      Gli scikari rizzarono in pochi minuti un’ampia e bellissima tenda di seta rossa in forma di padiglione e copersero il suolo con dei soffici tappeti di Persia, mentre il babourchi, ossia il cuoco della spedizione, aiutato da alcuni sais, cioè palafrenieri, faceva scaricare dal makna del maggiordomo le sue provviste onde servire una colazione fredda.

      Yanez, Sandokan e Tremal-Naik si erano affrettati a prendere possesso della tenda, essendo il caldo intensissimo. Kammamuri ed i sei malesi della scorta, si erano invece rifugiati sotto un immenso tamarindo che spandeva, sotto i suoi lunghissimi e flessibili rami un’ombra benefica.

      L’aria del mattino aveva aguzzato straordinariamente l’appetito dei cacciatori, sicché gli ospiti del rajah fecero molto onore alla curree bât che inaffiarono abbondantemente con birra e toddy, la dolce e piccante bevanda indiana che è gradevolissima anche ai palati europei.

      Il maggiordomo, dopo d’aver sorvegliato la distribuzione dei viveri, li aveva raggiunti, sedendosi però ad una certa distanza dal mylord inglese.

      – Ti aspettavamo, – disse Yanez, che si era coricato su un ampio cuscino di seta rossa per fumare con maggior comodità. – E questa tigre dove la scoveremo?

      – Il jungaul barsath (re della jungla) a quest’ora si riposerà nella sua tana, – rispose il maggiordomo. – Non sarà che verso sera o di buon mattino che noi la incontreremo.

      Non ama il sole, mylord.

      – Sai approssimativamente dove noi la incontreremo?

      – Quattro giorni or sono, fu vista nei dintorni dello stagno di Janti; anzi là divorò una donna che conduceva una mucca onde si abbeverasse.

      – La mucca scappò in tempo?

      – La bâgh non si è occupata dell’animale. Ora che si è abituata alla carne umana non desidera che quella.

      – Che abbia il suo covo in quei dintorni? – chiese Sandokan.

      – Sì, deve trovarsi fra i bambù della vicina jungla, perché anche alcune settimane or sono, è stata incontrata due volte da uno scikaro.

      – Questa sera potremo trovarci a quello stagno?

      – Prima del tramonto vi giungeremo, – rispose il maggiordomo.

      – Volete che tendiamo una imboscata colà? – chiese Sandokan volgendosi verso Yanez e Tremal-Naik. – Se quella bestia è così astuta e diffidente, non si lascerà accostare dagli elefanti.

      – Era quello che pensavo anch’io, – disse il portoghese.

      – A che ora riprenderemo le mosse? – chiese Tremal-Naik al maggiordomo.

      – Alle quattro, sahib.

      – Possiamo approfittare per schiacciare un sonnellino allora. Non siamo sicuri di riposarci questa sera. —

      Il maggiordomo fece portare altri cuscini, poi abbassare sul dinanzi della tenda un gran drappo pure di seta, onde potessero riposare più tranquilli.

      Anche gli scikari ed i conduttori dei cani, approfittando della grande calma che regnava sotto le piante, e del nessun pericolo che li minacciava, si erano addormentati. Vegliavano invece gli elefanti, occupati a dar fondo ad un ammasso di foglie e di rami di pipal, di cui sono ghiottissimi, non avendo forse trovata sufficiente la razione fornita loro dai mahuts, quantunque composta di venticinque libbre di farina impastata con acqua, di una libbra