Emilio Salgari

Capitan Tempesta


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momenti di silenzio, le grida dei muezzin che incoraggiavano e fanatizzavano i figli dell’Islam.

      – Nel nome di Allah! Distruggete! Uccidete! Non vi è Dio fuor di Dio e Maometto è il suo Profeta!

      La difesa dei cristiani si era concentrata sul bastione di San Marco, perchè sapevano che lo sforzo maggiore del nemico sarebbe stato volto verso quello, essendo la chiave di Famagosta.

      I migliori capitani, fra i quali Tempesta, avevano radunate colà le loro compagnie e piazzate venti colubrine, scelte fra le più grosse.

      Il fuoco di quelle numerose bocche, manovrate per lo più da marinai veneti, che godevano allora fama di essere valentissimi, doveva fare dei grandi vuoti fra le colonne turche che muovevano all’attacco, compatte, sfidando serenamente la morte.

      Anche dalle torri gli assediati sparavano furiosamente, massacrando specialmente la cavalleria che galoppava in tutti i sensi, per avvolgere completamente la città ed impedire la fuga degli abitanti ormai condannati al macello.

      Il fuoco era stato appena ripreso, quando El-Kadur, che aveva lasciato il campo turco prima che gli assedianti si muovessero, scalò il bastione presentandosi a Capitan Tempesta:

      – Signora, – disse con un forte tremito nella voce, fissandolo con estrema ansietà. – Ecco, l’ora terribile sta per suonare per Famagosta. A meno d’un miracolo, domani la città sarà nelle mani degli infedeli.

      – Siamo tutti pronti a morire, – rispose la duchessa con accento di rassegnazione. – E il signor Le Hussière?

      – Lo salverà Iddio.

      – Vi è forse ancora tempo per fuggire. Coperta dal mio mantello arabo potresti passare inosservata fra la confusione orribile che succederà fra poco.

      – Sono un soldato della Croce, El-Kadur, – rispose la duchessa con fierezza. – Io non priverò Famagosta d’una spada che saprà fare il suo dovere.

      – Pensa, signora, che domani forse non sarai più viva, perchè io so che il gran vizir ha ordinato di passare tutti a fil di spada.

      – Sapremo morire da forti, – rispose la duchessa, soffocando un sospiro. – Se è scritto che nessuno di noi sopravviverà a questo memorando assedio, si compia il nostro destino.

      – Non vuoi venire dunque, signora? – insistette El-Kadur.

      – È impossibile: Capitan Tempesta non può disonorarsi dinanzi alla cristianità.

      – Ebbene, padrona disse l’arabo con una specie di esaltazione, – Morrò anch’io al tuo fianco.

      Poi aggiunse fra sè:

      – La morte spegne tutto ed il povero schiavo riposerà tranquillo.

      Intanto il cannoneggiamento era diventato terribile. Le duecento colubrine turche, una artiglieria formidabilissima per quei tempi, avevano aperto il fuoco a loro volta, tempestando con violenza inaudita i bastioni e le torri già semi-diroccate da tanti mesi d’assedio.

      Palle di ferro e palle di pietra cadevano in gran numero sulle opere di difesa, facendo strage dei difensori, e scariche di moschetteria si succedevano senza posa. La tenebrosa pianura pareva un mare di fuoco ed il rimbombo era così spaventevole che i bastioni tremavano e si sgretolavano, rovinando nei fossati sottostanti.

      I guerrieri veneti, quantunque oppressi da quella grandine micidialissima, non si scoraggiavano e aspettavano a pié fermo l’urto immane delle sterminate orde, che muovevano all’assalto con un vociare che pareva l’ululato di miriadi e miriadi di lupi famelici, bramosi di carne umana.

      Tutti gli abitanti che potevano ancora reggere un’arme, erano accorsi sui bastioni armati di picche e di alabarde, di spadoni e di mazze, invasi da un pazzo furore, mentre le loro donne ed i fanciulli si rifugiavano, urlando e piangendo, nella chiesa principale, sotto una pioggia incessante di bombe che diroccavano le ultime case, come se là dentro fosse bastato il ruggito del morente Leone della Repubblica Veneta a trattenere gli adoratori della Mezzaluna e di Maometto.

      Un frastuono orrendo copriva Famagosta, Le torri, smantellate dalle artiglierie nemiche, crollavano con immenso fragore, e le cinte si sfasciavano travolgendovi gli sfortunati difensori, mentre le schegge delle enormi palle di pietra volavano dovunque, mutilando guerrieri, donne e fanciulli.

      Astorre Baglione, governatore generale, assisteva impassibile a quella strage, appoggiato alla sua spada, aspettando, col cuore stretto però da un’angoscia inesprimibile, l’urto supremo.

      Ritto in mezzo ai suoi capitani, impartiva con voce tranquilla gli ordini, già rassegnato da lunga pezza al suo destino e pronto a sfidare la morte.

      Sapeva che il vizir non lo avrebbe risparmiato, se fosse uscito vivo da quella lotta formidabile e guardava serenamente il pericolo che lo minacciava da tutte le parti, esempio ammirabile di gran capitano.

      Le masse turche intanto, spalleggiate dalla formidabile artiglieria che batteva fieramente le cadenti mura di Famagosta, s’avanzavano sempre imperterrite, aizzate senza posa dalle urla dei muezzin.

      – Uccidete! Sterminate! Il Profeta e Allah ve lo comandano!

      I giannizzeri si erano messi alla testa e quei terribili soldati si spiegavano sempre più nella pianura, trascinando all’assalto gli albanesi e gli irregolari dell’Arabia e dell’Asia Minore.

      I minatori che li precedevano, non perdevano il loro tempo. Approfittando della confusione e dell’oscurità, si spingevano con pazza temerità sotto i bastioni e sotto le torri e, non badando a saltare in aria, facevano scoppiare barili di polvere per aprire delle brecce che permettessero alla fanteria di spingersi all’assalto.

      Era specialmente contro il bastione di San Marco che s’accanivano maggiormente, minandolo da tutte le parti. Spaventevoli detonazioni si succedevano senza tregua, sconquassando la rivestitura esterna e facendo crollare le merlature.

      Ciononostante i pochi figli delle lagune venete e delle scogliere dalmate non cessavano il fuoco, decimando crudelmente le colonne degli infedeli, i quali seminavano la pianura di morti e di feriti.

      Impavidi fra la pioggia di macigni, scaraventati in aria da quelle esplosioni e fra quel rovinio di pietre, le quali sfuggivano sotto i loro piedi ad ogni scossa, e fra quel tempestar continuo di frammenti di ferro e di proiettili, di fionde e di frecce incendiarie, scagliate dai balestrieri dell’Asia Minore, aspettavano sempre l’impeto delle scimitarre infedeli, dietro i loro scudi.

      Il frastuono orrendo aumentava di minuto in minuto. Alle urla feroci dei mussulmani rispondevano in lontananza i pianti e le preghiere delle donne e le grida dei fanciulli. Nell’aria satura di fumo e di polvere risuonavano, fra il fragor dei bronzi tuonanti, le campane che chiamavano a raccolta gli abitanti, se ancora ve n’erano entro le case già fiammeggianti.

      Le masse dei barbari s’avanzavano, lente, pesanti, possenti, continuando a svolgersi nella pianura. A migliaia e migliaia salivano, verso le scarpe dei bastioni, come una marea irrefrenabile, mentre le mine rombavano cupamente, lanciando fra le tenebre guizzi sinistri di luce sanguigna o sulfurea che subito si spegnevano.

      – Allah! Pel Profeta! Morte ed esterminio ai giaurri! – ruggivano centomila voci, coprendo il rimbombo delle tuonanti artiglierie.

      Già i giannizzeri erano giunti dinanzi al bastione di San Marco e si preparavano ad assalirlo, quando un lampo vivissimo ruppe le tenebre, seguito da uno scroscio spaventevole. Una mina che non aveva preso fuoco, incendiata da qualche frammento di pietra infuocata o da qualche freccia incendiaria, era scoppiata squarciando a metà la cinta.

      Un nembo di macigni s’alzò per l’aria storpiando od uccidendo un gran numero di giannizzeri, le cui colonne si erano subito ripiegate confusamente e cadde anche sul bastione occupato dai guerrieri veneti. Capitan Tempesta che si trovava presso uno dei merli, pronto a contrastare il passo agli invasori alla testa dei suoi valorosi schiavoni, fu rovesciato di colpo da un macigno, che lo aveva colpito al lato destro della corazza.

      El-Kadur, che stava qualche passo indietro, vedendo la sua signora lasciarsi sfuggire lo scudo e la spada e stramazzare al suolo, come se fosse stata fulminata, si era precipitato innanzi, mandando