possente delle artiglierie. I giannizzeri montavano in quel momento all’assalto con urla frenetiche e nessuno poteva occuparsi della disgraziata e valorosa giovane, nemmeno il signor Perpignano che già lavorava di spada alla testa degli schiavoni.
El-Kadur, fuori di sè, afferrò la padrona, se la serrò contro il petto e discese a precipizio giù dal bastione, avviandosi a corsa sfrenata verso la città, incurante delle palle e dei frammenti di pietra che grandinavano nelle vie e sui tetti delle case.
Dove fuggiva? Lui solo lo sapeva.
Seguì per cinque o seicento metri la cinta interna, poi si arrestò sotto una delle vecchie torri della città, la cui base era già stata rovinata dalle mine. Ammassi di macerie s’alzavano dovunque e sulla cima di quella massiccia costruzione tuonavano due colubrine.
El-Kadur s’arrampicò su quei massi accumulati confusamente, che ad ogni colpo di cannone franavano e s’introdusse in una stretta apertura che pareva menasse in una casamatta ormai abbandonata.
S’avanzò a tentoni, tenendosi sempre stretta la giovane duchessa, poi la depose a terra delicatamente.
– Anche se Famagosta cadesse questa notte, nessuno scoprirà il cadavere della mia padrona, – mormorò.
Brancolò per alcuni istanti fra le tenebre, poi estrasse dalla sua borsa un acciarino e un pezzo d’esca e fece cadere parecchie scintille finchè ottenne una fiammella.
– Non hanno vuotato la casamatta, – disse. – Troverò l’occorrente.
Si diresse verso un angolo dove si scorgevano confusamente delle casse e dei barili ammonticchiati alla rinfusa, frugò per qualche secondo e levò una torcia che subito accese.
Si trovava in una specie di sotterraneo, scavato alla base del torrione e che pareva avesse prima servito di deposito alla guarnigione dell’attiguo bastione. Infatti, oltre le casse ed i barili contenenti armi e munizioni, vi erano dei materassi, delle coperte, delle giare contenenti forse dell’olio o del vino o più probabilmente delle olive, che costituivano ormai quasi l’unico nutrimento degli assediati.
L’arabo, senza preoccuparsi dei colpi di colubrina che echeggiavano sopra la sua testa e che si ripercuotevano nella casamatta con un rombo assordante, piantò la torcia in un crepaccio del suolo e depose la duchessa su un materasso.
– È impossibile che sia morta singhiozzò. – No, una signora così bella e così valorosa non può morire.
Levò il mantello che avvolgeva la duchessa e guardò la corazza. Verso il lato destro si vedeva una profonda ammaccatura, con un buco nel mezzo da cui usciva un filo di sangue. La scheggia di pietra o forse di ferro, lanciata con inaudita violenza, aveva spezzato perfino l’acciaio. Slacciò con infinite precauzioni la corazza e scorse subito, un po’ sotto la spalla, una ferita profonda che sanguinava abbondantemente.
– Purchè non sia entrato nelle carni qualche frammento del proiettile, la mia padrona non morrà, – mormorò l’arabo. – Il colpo deve essere stato però violentissimo.
Stracciò il manto della duchessa che era di lana finissima e leggera, facendo delle bende, sollevò parecchie giare che erano coperte e trovatane una piena d’olio vi bagnò uno straccio. Fasciò delicatamente la ferita per arrestare il sangue, poi soffiò a più riprese, a tutta forza, sul volto di Capitan Tempesta per farlo tornare in sè.
– Sei tu, mio fedele El-Kadur? chiese ad un tratto la duchessa, aprendo gli occhi e fissandoli sull’arabo.
La sua voce era fioca ed il suo bel viso pallidissimo, bianco come un cencio di bucato.
– Vive! La mia padrona vive! – esclamò l’arabo – Ah! Signora, ti avevo creduta morta.
– Che cos’è avvenuto, El-Kadur? – riprese la duchessa, – Non ricordo più nulla… dove siamo… chi spara presso di noi? Non odi questi rombi che mi pare mi spezzino la testa?
– Siamo in una casamatta, signora, al sicuro dalle palle dei turchi.
– I turchi! esclamò la giovane, tentando di alzarsi a sedere, mentre i suoi occhi s’illuminavano – I turchi! È caduta Famagosta?
– Non ancora, signora.
– Ed io sono qui mentre gli altri si fanno uccidere?…
– Sei ferita.
– È vero… provo un dolore acuto qui… mi hanno colpito con una palla o con un colpo di spada? Non mi rammento più nulla.
– È stata una scheggia di pietra che ti ha spezzata la corazza.
– Dio, che frastuono!
– I turchi montano all’assalto.
La duchessa si era fatta maggiormente pallida.
– È perduta la città? chiese con angoscia.
– Non lo so, signora, ma io non lo credo. Odo le colubrine del bastione di San Marco a tuonare sempre.
– El-Kadur, va’ a vedere che cosa succede.
– E tu, signora? Come posso lasciarti sola?
– Tu sei più utile sulle mura che qui.
– Non oso, padrona, abbandonarti.
– Va, – disse la duchessa con un gesto imperioso. – Va o io mi levo e, dovessi morire a mezza via, lascerò questo rifugio. È il momento terribile in cui tutti i soldati della Croce combattono e tu hai rinnegato la fede del Profeta e sei cristiano al pari di me. Va, El-Kadur, lo voglio e uccidi anche tu gli infedeli, i nemici della nostra religione.
L’arabo abbassò il capo, esitò un momento guardando la duchessa cogli occhi umidi, poi, estratto il jatagan, si slanciò fuori, mormorando:
– Che il Dio dei cristiani mi protegga per salvare la mia padrona.
CAPITOLO VI. Una notte di sangue
Mentre l’arabo si dirigeva correndo verso il bastione di San Marco tenendosi rasente le case per non essere colpito dalle palle che cadevano sempre fitte sulla città, sprofondando nei tetti e abbattendo, col loro peso, i piani inferiori, le orde turche che erano già riuscite a varcare la pianura nonostante il fuoco intenso dei cristiani, avevano cominciato l’attacco generale.
Famagosta era ormai tutta avvolta in un cerchio di fuoco e di ferro, che si stringeva sempre più, lentamente certo, ma sicuramente.
Lo sforzo supremo era diretto contro il bastione di San Marco, nondimeno anche le torri e le cinte erano assalite vigorosamente da enormi masse di combattenti che sfidavano sorridendo la morte.
I giannizzeri, quantunque avessero subìto perdite enormi, coprendo la pianura dei loro cadaveri, si erano spinti finalmente sotto il formidabile bastione che le mine avevano in parte squarciato ed erano già venuti all’arma bianca, assalendo con impeto irrefrenabile le compagnie degli schiavoni e dei candiotti che lo difendevano, mentre gli albanesi, gli irregolari dell’Asia Minore, ed i selvaggi figli dell’Arabia, tentavano di dare la scalata alle torri e di espugnarle.
Salivano i miscredenti colla furia di tigri affamate, arrampicandosi come scimmie su per l’erta scarpa e le macerie, coll’jatagan stretto fra i denti e le scimitarre in mano, coprendosi coi loro scudi di ferro adorni di code di cavallo e d’una mezzaluna d’argento.
La mitraglia che li colpiva in pieno, quasi a bruciapelo, sgominava di quando in quando le loro file, poi i superstiti passavano impavidi sui morti e sui moribondi e stringevano subito le file, urlando a squarciagola:
– Uccidete! Sterminate! Il Profeta lo vuole.
Ed i formidabili giannizzeri, tutti vecchi veterani che avevano provato il valore delle spade venete a Cipro ed a Negroponte e sulle coste dalmate, salivano col sorriso sulle labbra, sorrisi di belve affamate e assetate di sangue cristiano, credendo nel loro cieco fanatismo di scorgere fra il lampo degli acciai nemici i visi bellissimi delle urì del paradiso promesso dal Profeta. Che importava a loro la morte se le fanciulle del cielo aspettavano colle loro candide braccia i baldi guerrieri che morivano eroicamente sul campo di battaglia in difesa della Mezzaluna?