strepitando ferocemente, agitando forsennatamente le scimitarre fiammeggianti, mentre dietro di loro la pianura si copriva di fumo e le artiglierie tuonavano senza un momento di tregua, coprendo Famagosta di ferro e di palle di pietra incandescenti.
I cristiani però tenevano testa all’impeto di quelle masse enormi. Incoraggiati dalla presenza del governatore, la cui voce tuonava senza che il rombo delle artiglierie riuscissero a soffocarla, opponevano una resistenza ammirabile.
Stretti sul bastione, formavano una muraglia di ferro che le scimitarre degli infedeli non riuscivano a sfondare. Picchiavano tremendamente colle mazze, sfondando gli scudi degli assalitori o fracassando elmetti e cimieri; calavano gran colpi di spada, spaccando teste e troncando braccia; foravano colle alabarde e colle picche e moschettavano a bruciapelo, mentre le colubrine seminavano la morte con scariche di mitraglia.
Era una lotta titanica, gigantesca, che empiva di terrore tanto gli assaliti quanto gli assalitori.
Intanto anche sugli altri bastioni ed intorno alle torri si combatteva con rabbia estrema e con egual strage. Gli albanesi e gli irregolari dell’Asia Minore, resi furibondi dall’ostinata resistenza che opponevano gli assediati e dalle immense perdite subìte, tentavano con sforzi disperati di superare le cinte, appoggiandovi un numero infinito di scale che venivano quasi sempre rovesciate nei fossati con tutti quelli che vi erano sopra.
Anche da quella parte la strage era così immensa che le scarpate grondavano sangue, come se migliaia di buoi venissero macellati sopra le merlature. I turchi cadevano a drappelli interi, massacrati dai moschetti, dalle spade e dalle picche, ma altri subito subentravano e ritentavano gli attacchi con cieca ostinazione.
S’accanivano specialmente contro le torri, sulle cui piattaforme le colubrine venete sparavano senza perdere un istante ed era là che subivano le maggiori perdite. Quei vecchi ed altissimi edifici non erano facili ad espugnarsi, poichè opponevano una resistenza meravigliosa alle mine ed agli arieti.
Si smantellavano i rivestimenti esterni, ma quelli interni non cedevano facilmente, tanto quelle torri erano state solidamente costruite dagli ingegneri della Repubblica Veneta.
Di tratto in tratto, i cristiani, disperando ormai delle proprie difese, decisi a morire colle armi in mano, piuttosto di lasciarsi trucidare più tardi freddamente, smantellavano colle loro mazze e colle scuri le merlature, facendo piovere sugli assalitori ammassi di macerie che ne storpiavano un gran numero.
Mentre su tutti i punti della città, soldati e abitanti gareggiavano in valore, risoluti a tutto tentare pur di infliggere al crudele nemico perdite enormi, fra quell’orrendo frastuono di bronzi tuonanti e di urla di moribondi e di combattenti, fra quel cupo fragor di spade e di mazze percuotenti scudi e armature, fra lo scoppiar fragoroso delle mine, squillavano sempre per l’aria fumante, le campane delle chiese e dalle strette viuzze, s’alzavano le preghiere delle donne singhiozzanti, imploranti San Marco, il protettore della Repubblica Veneta.
Quando El-Kadur, sfuggito miracolosamente alle palle di pietra che grandinavano sulla città, lasciando dietro delle strisce di fuoco come fossero bolidi, giunse al bastione principale, contro cui s’accanivano i giannizzeri, la lotta aveva preso proporzioni terribili.
Le piccole falangi cristiane, oppresse dagli assalti incalzanti degli infedeli, decimate dal fuoco delle pesanti colubrine piazzate nella pianura, affrante da quella battaglia che durava già da tre ore, cominciavano a dare indietro.
Combattevano ormai dietro a cumuli di morti che avevano formato dinanzi a loro una nuova trincea. Tutto il bastione era coperto di guerrieri boccheggianti, che gli jatagan degli infedeli s’affrettavano a finire, spaccando loro la gola; di scudi, di elmi, di picche, di alabarde, di spade e di colubrine ormai smontate.
Il governatore, pallidissimo, senza elmetto, colla cotta di maglia in più punti spaccata dalle armi dei turchi, circondato dai suoi capitani, ben pochi perchè i più erano caduti, cercava di riorganizzare le bande dei marinai veneti e degli schiavoni, per tentare una nuova e più disperata difesa.
Dietro al bastione si estendeva una vasta piattaforma riparata da un muricciolo, una specie di rotonda che serviva alle esercitazioni dei guerrieri e che aveva ai due lati dei piccoli ridotti.
Il governatore, vedendo che ormai il bastione era perduto, aveva dato l’ordine di ritirare in quel luogo le colubrine che erano ancora servibili e di fare impeto sui turchi che già salivano la scarpata esterna.
– Cerchiamo di resistere fino a domani, ragazzi! – aveva gridato il valoroso Baglione. – Avremo sempre tempo per arrenderci.
Gli schiavoni ed i marinai, quantunque crudelmente decimati da quella lotta sanguinosissima, nonostante la pioggia di palle, avevano messe in salvo otto o dieci colubrine, armando rapidamente i ridotti, mentre i guerrieri cercavano di trattenere per qualche istante gli infedeli, combattendo sopra la cinta del bastione e rovesciando giù per la scarpa i merli che ancora rimanevano ritti.
In quel momento El-Kadur comparve. Vedendo il signor Perpignano che stava per riordinare la compagnia di Capitan Tempesta, ridotta a meno della metà del suo effettivo, gli si avvicinò.
– Siamo perduti, è vero? – gli chiese l’arabo.
Il veneziano, vedendolo solo, aveva fatto un soprassalto.
– Ed il capitano? – chiese.
– Ferito, signore.
– Ti ho veduto portarlo via.
– Non temete, è in luogo sicuro e, se anche i turchi entrassero in Famagosta, non riuscirebbero a scoprirlo.
– Dove si trova?
– Nella casamatta della torre della Bragola, che è quasi interamente sepolta sotto le macerie. Se sfuggirete alla morte venite a trovarci.
– Non mancherò. Ecco il nemico: guardati, El-Kadur e non esporti troppo. Devi vivere per la salvezza del capitano.
I guerrieri veneti e gli schiavoni, oppressi dal numero strabocchevole del nemico e stanchi di uccidere, si ritiravano confusamente verso la rotonda, cercando di salvare se non tutti, almeno una parte dei loro feriti.
Il governatore di Famagosta aveva fortunatamente avuto il tempo di riorganizzare le proprie forze, che si erano accresciute di un certo numero di abitanti.
I giannizzeri, superata la scarpa che era coperta alla lettera di cadaveri, scavalcavano il parapetto urlando sempre:
– Morte ai giaurri! Uccidete! Sterminate!
Al lampeggiare delle artiglierie si vedevano i loro volti raggrinziti per la rabbia e gli occhi feroci, che avevano qualche cosa di fosforescente.
– A voi, artiglieri! – aveva gridato il governatore, dominando per un istante colla sua voce tuonante, le urla del nemico ed il fragore assordante dei bronzi.
Le colubrine avvampavano quasi nel medesimo istante, scuotendo il bastione dalla base alla cima e coprendo gli infedeli di mitraglia rovente.
Tutte le prime file di quei selvaggi guerrieri caddero sui parapetti, stecchite, fulminate da quella tempesta di ferro, ma subito altre si precipitarono all’assalto con foga sfrenata, per non lasciar tempo agli artiglieri di ricaricare i pezzi.
I guerrieri veneti e gli schiavoni che avevano avuto un momento di respiro, muovevano anche loro alla riscossa.
Coprendosi coi loro scudi: piombarono a loro volta addosso ai giannizzeri, impegnando una nuova e più furibonda lotta. I capitani erano con loro e li spronavano alla suprema difesa.
Scrosciavano le scimitarre e le spade sugli scudi e sulle armature, fracassando a poco a poco gli uni e schiodando le altre, tempestavano gli elmetti ed i cimieri, le mazze, rintronando le teste dei colpiti e le alabarde dalla larga punta si cacciavano con furore nelle carni, producendo spaventevoli e per sempre inguaribili ferite.
Quando fra i combattenti s’apriva un varco, le colubrine tuonavano uccidendo talvolta nemici e anche amici, mentre gli archibugieri, appollaiati sulla cima dei ridotti, mantenevano un fuoco intenso seminando la morte fra le colonne che scalavano le scarpate.
Più nulla però poteva ormai trattenere quelle masse sterminate che il gran vizir ed