Emilio Salgari

Gli ultimi flibustieri


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di dare l’assaggio al contenuto.

      – Sí, abbiamo sete!… – gridarono tutti gli altri, sbarazzandosi dei mantelli per mostrare che erano armati.

      – Ehi, tu che vuoi assaggiare di questo vinello, – disse il guascone rivolgendosi al capo-banda, – vieni a udire qui come borbotta. Poi mi dirai se sarà bevibile.

      – Se borbotta sarà vino nuovo e a noi piace molto perché è piú dolce, – rispose lo sconosciuto, avanzandosi verso il carretto ed appoggiando un orecchio alla botte, mentre i suoi compagni ridevano a crepapelle.

      – Odi? – chiese il guascone.

      – Carrai!… Tu mi burli!… Si direbbe che lí dentro vi sono delle bestie feroci che ringhiano.

      – T’inganni, amico: vi sono degli spettri che abbiamo presi in una cantina d’una famosa taverna e che andiamo a gettare in mare.

      Un grande scoppio di risa accolse quelle parole.

      – Camerati!… – gridò il capo-banda. – Avete paura voi degli spiriti?

      – No!… No!… – risposero gli altri ad una voce.

      – Fuori le spade e diamo battaglia a quei figli di Satana. Almeno vedremo come sono fatti. Rovesciate la botte!…

      – Quale? – chiese Mendoza, avanzandosi a sua volta, seguito da Buttafuoco e da Wandoe.

      – Quella che sta sul tuo carretto.

      – Lo scherzo è finito, mio caro, e ora si lavora a colpi di spada, se ci secchi ancora.

      – Oh!… Il buffone che…

      Una terribile piattonata attraverso le labbra gli ruppe la frase e qualche dente insieme.

      – A te, canaglia!… – aveva gridato Mendoza.

      I compagni del colpito, i quali parevano molto allegri, avevano estratte le spade e si erano gettati confusamente contro i quattro uomini, i quali li aspettavano a piè fermo, appoggiati al carretto. Rios aspettava il momento opportuno per far suonare il suo terribile bastone murcese sulle spalle degli assalitori, i quali vociavano in coro:

      – Prendiamo d’assalto le botte!…

      Abituati però piú a vuotare boccali di vino che a maneggiare le spade, fino dal primo attacco si trovarono a mal partito. Ci voleva ben altro per tenere testa al guascone, a Mendoza ed al gentiluomo francese diventato bucaniere.

      Fra un grandinare di colpi si udirono due o tre grida di dolore, poi due uomini abbandonarono precipitosamente il campo di battaglia, lasciando a terra mantelli e cappelli, segno evidente che se l’erano già prese.

      Gli altri però, incolleriti di essere tenuti in iscacco da quei quattro uomini che credevano dei semplici tavernieri, stavano per ritornare all’attacco, quando il forte castigliano entrò in linea.

      La faccenda fu breve. Gli aggressori, martellati sonoramente dal randello murcese, dopo una breve resistenza scapparono a gambe levate, lasciando sul terreno perfino delle spade spezzate.

      Mentre l’ercole castigliano, aiutato da Buttafuoco, li inseguiva per qualche tratto per impedire un ritorno offensivo, don Barrejo, Mendoza e Wandoe spingevano il carretto a tutta corsa verso il porto, mettendolo al sicuro sotto un oscuro porticato che riparava una modesta casetta da pescatori, situata di fronte ad una delle calate.

      Capitolo VI. LE IMPRESE DEL GUASCONE

      L’abitazione affittata da Wandoe, perché i suoi amici in caso di pericolo fossero piú pronti ad imbarcarsi, come abbiamo detto, era una modestissima casetta ad un solo piano, composta di tre sole stanze e di un porticato necessario a stendervi le reti.

      L’interno era illuminato, la porta aperta, sicché Wandoe, il guascone ed il basco non ebbero da aspettare per entrare.

      Un ruvido tipo d’uomo di mare, piuttosto attempato, li aspettava in una stanza che doveva servire ad un tempo da cucina e da tinello. Vedendoli entrare, si tolse dalla bocca la pipa, poi il berretto, dicendo:

      – Buena noche, caballeros: siete in casa vostra.

      Strinse la mano a Wandoe e se ne andò senz’altro aggiungere, come per far meglio comprendere loro che erano realmente in casa propria.

      Mendoza diede uno sguardo all’intorno, visitò le altre due stanze occupate da quattro amache e da molti arnesi da pesca, e tornò verso i compagni, dicendo:

      – Ci staremo benissimo qui, finché le spie del marchese non verranno a scovarci. Quel gentiluomo tiene sotto di sé degli uomini che devono possedere un fiuto straordinario.

      “Lesti, amici, portiamo dentro il ferito ed il fiammingo. La botte la getteremo piú tardi in mare, perché non possa servire come di traccia.”

      Tornarono nel porticato portando un lume, levarono il coperchio e tirarono fuori, con precauzione, il Pfiffero ed il preteso figlio del grande di Spagna, mettendoli su due amache che occupavano la stanza vicina.

      In quel momento Rios e Buttafuoco entrarono, l’uno armato del suo formidabile bastone e l’altro sempre impugnando la spada.

      – Sono scappati? – chiese Mendoza.

      – Io credo che corrano ancora, – rispose Buttafuoco. – La lezione è stata dura, ma l’hanno cercata loro.

      “Mio caro don Barrejo, le vostre botti sono troppo pericolose, siano piene di buon vino o vuote.”

      – Sono stregate, signor Buttafuoco, – rispose il guascone, ridendo, – e tali sono rimaste anche dopo tutte le benedizioni dei frati.

      – Come stanno i nostri prigionieri?

      – Russano come canne d’organo, – rispose il basco.

      – Sarà meglio rimandare a domani l’interrogatorio. Lasciamoli riposare e cerchiamo anche noi di schiacciare alla meglio un sonnellino.

      “Ne abbiamo bisogno.”

      Chiusero e sprangarono la porta, fecero una nuova visita alla casetta, poi Buttafuoco e Wandoe si gettarono sulle due altre amache, mentre Mendoza, il guascone e Rios si sdraiavano su un mucchio di vecchie reti.

      Al di fuori intanto l’uragano continuava ad infuriare ed il Pacifico scaraventava, dentro il porto di Panama, le sue formidabili ondate, mettendo a dura prova le âncore e le catene dei numerosi velieri che lo ingombravano.

      Per Buttafuoco ed il basco fu forse quella la prima notte veramente tranquilla che trascorsero da quando erano giunti nella grande città spagnuola, che allora godeva la fama, come oggi S. Francisco di California, di essere la regina del Pacifico.

      Il guascone, abituato ad alzarsi molto per tempo nella sua qualità di taverniere, fu il primo ad aprire gli occhi.

      Suo primo pensiero fu quello di fare una visita ai due prigionieri.

      Il preteso figlio del grande di Spagna russava ancora; il fiammingo invece si dibatteva come un disperato dentro l’amaca che gli era stata chiusa addosso perché non scappasse, brontolando e facendo delle smorfie cosí ridicole da far scoppiare dalle risa il feroce guascone.

      – Compare Arnoldo, mi sembrate un bel pesce dentro la rete, – disse don Barrejo, allentando subito le corde. – Come va dunque la salute, dopo una cosí lunga dormita? Che pessimo soldato sareste voi in guerra!…

      – Da pere, – chiese il disgraziato, dopo d’aver dimenata dieci volte la lingua, che doveva essere stata arrostita da quell’abbondante bevuta d’aguardiente.

      – Pere qui non ne abbiamo, compare Arnoldo, però vi darò qualche cosa di meglio.

      Prese una ciotola di terra, della capacità di un litro, la riempí in un grande vaso poroso che si trovava in un angolo e la porse al povero diavolo, il quale la vuotò senza staccarla un solo istante dalle labbra.

      – La va un po’ meglio ora, compare Arnoldo? – Chiese ironicamente il feroce guascone.

      – Testa malata, – rispose il fiammingo.

      – Bevete