poichè allora scoppiò una tempesta così orribile che lo costrinse a ritornare, e quale ritorno! Il 3 novembre la spedizione naufragava su di un’isola lontana 160 chilometri dalla penisola di Kamtsciatka e colà pativa tali sofferenze che molti marinai perirono e fra questi anche Behring.
E qui viene un punto molto oscuro.
Si narrò da taluni che quando lo sfortunato navigatore fu gettato nella fossa onde seppellirlo, respirava ancora anzi che respingeva colle mani la sabbia che gli veniva gettata sopra.
– Che sia stato commesso un delitto?
– Chi può dirlo?
– Povero Behring! E cosa successe dei suoi compagni?
– Rimasero colà tutto l’inverno, poi fabbricarono una navicella coi rottami della nave naufragata e ripresero coraggiosamente il mare; dopo altri patimenti riuscirono a raggiungere le coste della penisola di Kamtsciatka.
In quell’istante si udì un marinaio, che era salito sulla gran gabbia segnalare la costa americana, che una nebbiola aveva fino allora tenuta celata. Era il capo di Galles, punta scoscesa, aridissima, dietro la quale, ad una certa distanza però, si elevano delle montagne che per la maggior parte dell’anno si vedono coperte di neve.
Il «Danebrog», che correva assai, si avvicinò alla costa, poi virò di bordo dirigendosi verso il golfo di Krotzebue che si apre fra il capo Krusenstern a nord e il capo Espemberg a sud e che rinchiude ad est la baia di Escholtz, davanti la quale si trova l’isola Chamisso, a sud quella di Spasariet e ad ovest quella di Buona Speranza.
A due chilometri dal capo di Galles la costa americana, che fino allora si era mostrata dirupatissima, cominciò ad abbassarsi e apparvero immense paludi sulle quali si vedevano volteggiare migliaia di oche, di gabbiani, di gazze marine, di strolaghe e di urie. Le loro grida, portate dal vento, giungevano fino a bordo del «Danebrog».
Alcuni di quegli uccelli vennero fin presso la nave, e il tenente si divertì a sparare alcune fucilate.
Durante la notte del 12-13 – notte per modo di dire, poichè il sole splendeva sempre – il vento crebbe considerevolmente, accelerando la corsa del «Danebrog», e la temperatura, fino allora dolcissima si abbassò improvvisamente a 0°. L’indomani il legno girava il capo Espemberg e passava dinanzi al golfo di Kotzebue che s’insinua entro terra per ben venti leghe su una larghezza di ventitrè. Le sue coste erano alte, spalleggiate da gruppi di montagne e apparivano affatto deserte. Nessun canotto solcava le acque tranquille del golfo, dove in certe epoche si recano a pescare gli indiani Kitgoni che abitano le sponde settentrionali, e gli indiani Kiumisi che abitano le meridionali.
Di balene nessuna traccia. Invece furono segnalati alcuni delfini gladiatori, nemici accaniti delle prime, dotati di una forza prodigiosa e di una voracità straordinaria. Qualcuno era lungo più di otto metri.
Il 14, presso il capo Krusenstern, Koninson che guardava sempre attentamente il mare sperando di trovare quelle materie oleose che si lasciano addietro le balene, segnalò un banco di «boete», il quale aveva fatto cangiare tinta all’acqua, che appariva bruna anzichè verdastra. Questi banchi, che le balene cercano avidamente, sono formati da piccoli crostacei in forma di gamberi ma il cui diametro non supera i due millimetri e si producono in primavera e in estate. Talvolta hanno una lunghezza di quindici e persino venti leghe, una larghezza di una o due e uno spessore di quattro o cinque metri.
– Una volta, quando s’incontravano questi banchi, si trovava sempre una balena o anche due – disse malinconicamente Koninson, volgendosi verso il tenente che gli stava presso.
– Mio caro fiociniere, oggi le balene sono assai scemate rispose Hostrup. – Non sono molti secoli che si vedevano a frotte nel mare di Biscaglia, ed ora se si vuol trovarne una bisogna risalire in questi mari.
– Sono forse diminuite a causa di qualche malattia?
– No, a causa della caccia accanita dei balenieri. Ogni anno se ne distruggono un numero grandissimo, anzi non si esita ad affermare che nessuna balena può raggiungere il suo completo sviluppo, perchè prima di questo cade sotto il rampone dei fiocinieri.
– E siamo solamente noi a distruggerle?
– Purtroppo no. Le balene hanno altri nemici e forse più accaniti di noi.
– E quali mai? Chi osa sfidare simili giganti che hanno una coda così possente?
– Il più feroce è un crostaceo detto «pidocchio di balena», il quale aderisce talmente alla pelle dei cetacei che per staccarlo bisogna farlo a brani.
– Ma come può, un crostaceo, uccidere una balena?
– Nel modo più facile, Koninson. Questo pidocchio le si aggrappa nei punti più delicati, o sulle labbra, o sugli organi generativi e comincia a rodere cacciandosi entro le carni, causandole dolori sì atroci che dopo un certo tempo la disgraziata è costretta a morire.
– Che mostro!
– Ma ci sono altri nemici e non meno feroci. I capodolii, come ben sai, assalgono le balene tutte le volte che le incontrano e le mordono, così orribilmente da ucciderle.
– Ho assistito una volta a una simile lotta.
– Ve ne sono degli altri: i pescispada e i narvali, che si divertono a cacciare il loro acuto corno nel ventre dello sfortunato cetaceo; e i delfini, specie quelli detti gladiatori, che gli si cacciano, in bocca e ne divorano la lingua.
– Che canaglie! E di tutti questi nemici quale è il più terribile?
– L’uomo, il quale ogni anno ne distrugge centinaia e centinaia.
– Allora verrà un giorno che non se ne troverà più una.
– Sì, se le balene non si affrettano a rifugiarsi al di là dei ghiacci eterni, sotto il polo.
– E nell’oceano australe sono pure così accanitamente cacciate dai balenieri?
– Tanto come su questi mari.
– E le balene di quell’oceano sono eguali a quelle di questo?
– No, Koninson; ve ne sono tre specie e tutte differenti dalla balena franca che noi cacciamo. Vi si trova il «rightwhale», un cetaceo molto grande e che è privo della pinna natatoia; l’«hump-back» con due pinne biancastre e che è grosso come una balenottera, infine il «finback», d’una tinta bronzina, di una irrequietezza straordinaria e assai rumoroso.
– E tutti danno olio?
– Tutti, Koninson.,
– Ah! Vorrei provare il mio rampone anche contro quei giganti.
– Lo proverai fiociniere. Se usciamo salvi da questa spedizione, l’anno venturo andremo a pescare nel mari del sud. Il capitano me l’ha promesso.
– Quel giorno che metteremo la prua a sud sarà il più bello della mia vita, signor Hostrup.
– Lo credo, fiociniere.
VII. LA BALENA
La mattina del 17 settembre, all’altezza del capo di Barrow, che è il più avanzato verso il nord della Giorgia occidentale, l’equipaggio del «Danebrog» scopriva le tracce del passaggio delle balena.
Erano larghe macchie di sostanze oleose che spiccavano vivamente sull’acqua verdastra del mare, e così copiose da far credere che colà fosse passato un numerosissimo branco di cetacei.
Il capitano Weimar, che già aveva cominciato a disperare, mise subito delle vedette sugli alberi e fece preparare le baleniere affinchè tutto fosse pronto al momento opportuno.
Koninson tornò a piantar domicilio nella rete del bompresso per non perdere di vista quelle macchie oleose che si dirigevano verso, l’est, seguendo le coste, della Giorgia. Ben presto fu segnalato un immenso banco di «boete», il cibo prediletto delle balene, ma qua e là rotto. Senza dubbio i cetacei avevano colà pescato – come diceva Koninson – facendo dei gran vuoti colle loro enormi bocche. Anche qui le sostanze grasse galleggiavano in gran nunero, spiccando ancor meglio