Emilio Salgari

I pescatori di balene


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spiegate?

      – Se giunge una raffica forte quanto quella di prima non potranno resistere, ne son certo.

      Il capitano ritornò a poppa e prese la ribolla del timone mentre il tenente faceva portare in coperta alcune vele.

      Il «Danebrog» era giunto nello stretto, il quale è largo ben 83 chilometri fra il capo orientale dell’Asia e il capo di Galles dell’America e profondo assai.

      Qui il mare era orribilmente agitato. Le onde, spinte dal vento, si schiacciavano, per così dire, fra due coste, quantunque, come si disse, queste siano assai distanti l’una dall’altra; e si frangevano furiosamente contro le isole lanciando sprazzi di spuma a tale altezza che questi toccavano le nere frange delle nubi.

      A mezzanotte il «Danebrog» giungeva dinanzi all’isola Ratmanoff, sulla quale volteggiavano disordinatamente migliaia di uccelli marini.

      D’improvviso, quando i marinai si credevano già quasi fuori di pericolo, una raffica furiosa investì la nave che tuffò più di mezza prua nel seno degli spumanti flutti. Gli alberi si curvarono come fossero semplici stecchi, poi si udirono due scoppi violenti seguiti da urla di terrore. Le due vele strappate dai pennoni volarono via come due immensi uccelli. Il capitano Weimar, malgrado il suo straordinario coraggio, impallidì.

      – Una vela! Una vela o siamo perduti! – gridò.

      Infatti il «Danebrog», senza un brano di tela, veniva spinto dalle onde e dal vento contro l’isola Ratmanoff che mostrava i suoi scogli a meno di quattro gomene di distanza.

      Il tenente, Koninson, mastro Widdeak e una decina di marinai malgrado le disordinate scosse che li atterravano, tentarono di spiegare una trinchettina, ma le onde che si precipitavano in coperta e i soffi tremendi del vento, rendevano quell’operazione quasi impossibile.

      Tre volte la vela fu innalzata fino al pennone e tre volte il vento l’abbattè e con essa gli uomini.

      Allora un grande spavento si impadronì del l’equipaggio. Alcuni marinai perduta completamente la testa per il terrore, si misero a correre per la coperta sordi ai comandi e alle minacce dei capi. Altri, non meno spaventati, si gettarono sulle baleniere.

      Il «Danebrog», semi-rovesciato su un fianco, coperto d’acqua ad ogni istante, andava sempre attraverso le onde malgrado gli sforzi disperati del capitano che non aveva abbandonato la ribolla.

      Ad un tratto avvenne un urto formidabile sul tribordo, seguito da un crepitio sinistro. Il capitano, il tenente e i marinai furono violentemente rovesciati in coperta.

      Quando si risollevarono il «Danebrog» non correva più. Si era arenato a una sola gomena dall’isola, in mezzo ad un gruppo di scoglietti le cui punte nere uscivano dalle onde.

      V. L’ISOLA RATMANOFF

      Il capitano Weimar sentendo la nave ferma e comprendendo che forse una grave avaria le era toccata, gettò un vero ruggito.

      Con un vigoroso colpo di timone tentò dapprima di trarla da quegli scogli che potevano, da un istante all’altro, sventrargliela, ma non riuscendovi si precipitò verso prua dove si affollavano i marinai gettando grida di terrore. Hostrup, che anche in quel terribile frangente, che pur poteva diventare per tutti fatale, non aveva perduto un millesimo della sua tranquillità, vi era già.

      – Perduti? – gli chiese il capitano col denti stretti.

      – Forse no! – rispose con voce calma il tenente.

      Il capitano respinse alcuni marinai e salì sul bompresso. Il «Danebrog» posava la prua su di un banco di sabbia, riparato a destra e a sinistra da una doppia fila di scoglietti. La poppa però galleggiava e se da una parte era un bene, dall’altra era anche un male poichè le onde, sollevandola violentemente minacciavano di disarticolare il vascello.

      – Che ci sia una falla? – chiese il tenente,

      – Lo temo! – rispose Weimar – Mi pare di vedere un’apertura un po’ sotto la linea di galleggiamento. Ira di Dio! Anche questa disgrazia doveva toccarci! Non bastava dunque la speronata dell’americano? Povero il mio «Danebrog»!

      – Ma forse la cosa non è grave, capitano.

      – Ma chi turerà la falla? Qui siamo come in mezzo ad un deserto.

      – Abbiamo un abile carpentiere a bordo.

      – Scendiamo nella stiva, signor Hostrup.

      I due comandanti fecero aprire il boccaporto maestro e scesero nel ventre del vascello preceduti da Koninson e da mastro Widdeak che avevano accese due lanterne. Rimosse le botti che occupavano la stiva, si diressero verso prua dove si arrestarono, ascoltando con profonda attenzione.

      Udirono distintamente un sordo gorgoglio, dovuto senza dubbia all’acqua che entrava nella falla apertasi.

      – Sarà grande l’apertura? – si chiese con ansietà il capitano.

      – Non lo credo, – disse mastro Widdeak. – Il gorgoglio non è molto forte.

      – Dobbiamo levare le botti? – chiese Koninson.

      – Per ora è inutile, – disse il tenente. – Finchè la burrasca non sarà cessata, nulla potremo fare.

      – Non c’è pericolo di colare a picco?

      – No, – disse il capitano. – Il «Danebrog» è fortemente incagliato e la poppa è molto alta. Saliamo in coperta.

      Abbandonarono la stiva e tornarono sulla tolda ove i marinai, ancora pallidi, li attendevano con grande ansietà. Il capitano con poche parole li rassicurò.

      Pel momento nulla eravi da fare, poichè l’uragano continuava a infuriare in siffatta maniera da rendere impossibile la calata delle baleniere.

      Il capitano fece gettare un’àncora a poppa per assicurare maggiormente il vascello, e altre due ne fece gettare fra gli scoglietti, a babordo l’una e a tribordo l’altra. Ciò fatto attese, in preda ad una certa agitazione che non riusciva a vincere, che il mare si calmasse.

      La sua pazienza e quella dell’equipaggio furono messe a dura prova, poichè l’uragano infuriò tutto il giorno, scuotendo fortemente la nave che gemeva sinistramente sul suo letto di sabbia.

      Verso però le 11 pomeridiane quei formidabili soffi a poco a poco scemarono di violenza e attraverso gli squarciati vapori tornò a mostrarsi il sole che allora radeva l’orizzonte occidentale.

      Alla mezzanotte una calma assoluta regnava negli strati superiori, e l’aria, poco prima così agitata e fredda, era diventata così tiepida da far quasi credere di essere nel Messico anzichè nello stretto di Behring. Il mare però mantenevasi ancora agitatissimo e continuava a infrangersi con grande violenza contro le isole, inoltrandosi nei «fiords» con muggiti prolungati.

      L’indomani, 2 settembre, a bassa marea il capitano, il tenente, Widdeak e il carpentiere scesero in una baleniera e approdarono sul banco dove la prua del vascello era rimasta quasi interamente allo scoperto.

      L’avaria causata dal violentissimo urto era gravissima ma non irreparabile. A pochi piedi dall’asta di prua, subito sotto la linea di galleggiamento, la punta aguzza di uno scoglietto aveva aperto un buco così grande che vi poteva passare comodamente un barile. La chiglia fortunatamente non aveva riportato alcun guasto, avendo incontrato un banco di sabbia, in cui vi si era quasi interamente seppellita,

      – Che ne dici, carpentiere?– chiese il capitano con inquietudine.

      – Il colpo è stato fierissimo, – rispose l’interrogato, – e la falla è ragguardevole. Però....

      – Però?… – disse il capitano, nei cui sguardi brillò un lampo di gioia.

      – La si turerà.

      – Quanto tempo chiedi? Bisogna che sia breve affinchè possiamo approfittare della gran marea del 12 settembre.

      – Per quel giorno il Danebrog sarà pronto a prendere il mare.

      – E quando avremo lasciato il banco, dove andremo? – chiese il tenente che