superficie del mare, a una sola gomena dalla prua della baleniera di Widdeak, era stato scorto il tremolio.
Harwey, che era ansioso di lanciare la sua arma si alzò di colpo.
Poco dopo il gigante apparve. Aveva il rampone ancora piantato nel fianco e manifestava il suo dolore con sordi brontolii e con un continuo eruttare di densi vapori dai due sfiatatoi.
Mastro Widdeak diresse verso di lui la sua baleniera. Harwey alzò il rampone e lo lanciò con grande forza.
Il cetaceo, nuovamente ferito, emise una formidabile nota che durò otto o dieci secondi. Si sarebbe detto che quella nota era prodotta da una impetuosissima corrente d’aria spinta dentro un largo tubo di bronzo.
Subito dopo il mostro si mise a guizzare qua e là, ora avvicinandosi alle baleniere e ora allontanandosi come se avesse completamente perduto la testa. La sua possente coda e le sue grandi pinne pettorali battevano furiosamente l’acqua sollevando delle ondate. Sordi brontolii gli uscivano dalla gola e fischi acuti, dagli sfiatatoi i quali lanciavano senza posa bianchissime e molto dense nubi di vapore.
– Avanti! Avanti! – gridò Koninson.
Il tenente, punto curandosi dei colpi di mare e punto spaventato dai tremendi colpi di coda che il mostro avventava, fece avanzare la baleniera mentre mastro Widdeak girava al largo per non imbrogliare le due lenze.
I cacciatori con pochi colpi di remo si trovarono a breve distanza dal cetaceo.
Koninson che era diventato frenetico, appena lo vide alzare la coda gli lanciò il rampone dalla punta rotonda, colpendolo nelle ultime vertebre caudali. Dalla larga ferita uscì subito un grosso rivo di sangue, il quale arrossò per un largo tratto le acque.
– Urrah! Urrah! – urlò il fiociniere balena è nostra!
Infatti per il cetaceo era ormai finita. Colpito ai fianchi dai due ramponi e poi sotto la coda da quella larga palla tagliente che gli aveva recisi i tendini e l’arteria, non poteva più fuggire. Era questione di ore, forse di soli minuti, poichè le baleniere tornavano alla carica per gettare le lancie.
In meno di quindici secondi altre ferite gli furono aperte sui fianchi dai due fiocinieri, e tutte mortali.
Allora cominciò l’agonia, ma un’agonia terribile e pericolosissima, non solo per le baleniere, ma per il «Danebrog».
Il gigante diventato pazzo per il dolore e anche cieco si precipitava in tutte le direzioni con impeto irresistibile. Usciva più di mezzo dall’acqua, si tuffava, tornava a galla, si rovesciava sui fianchi, ora filava colla rapidità di una freccia, ora si arrestava mandando suoni rauchi, metallici o note potenti, ora descriveva delle curve o dei bruschi angoli.
Il «Danebrog» si era messo nuovamente alla vela per non venire investito e si teneva ad una grande distanza e le due baleniere avevano un gran da fare per non venire subissate dalle onde che il gigante sollevava, o sfasciate dalla coda.
Ad un tratto però la balena si arrestò. Dai suoi sfiatatoi uscirono con sinistro rumore due getti di sangue che arrossarono una grande zona di mare, poi un fremito agitò l’intera massa.
Mandò un’ultima e più acuta nota, indi sollevò la testa mostrando la sua immensa bocca, poi si rovesciò sul dorso e rimase immobile col ventre a fior d’acqua.
Era morta!
VIII. I PRIMI GHIACCI
Pochi minuti dopo il «Danebrog» che, come si disse, aveva già spiegato le vele, abbordava la balena che era tornata a galla e presso la quale si erano già ormeggiate te le due baleniere.
Il gigante galleggiava in mezzo ad un ampio cerchio di sangue uscitole dalle numerose ferite apertegli dai ramponi e dalle lancie e sul suo ventre avevano già preso posto gli uccelli marini sempre pronti ad accorrere dove sanno che c’è da rimpinzarsi. Ve n’erano delle migliaia giunti da tutte le parti dell’orizzonte e specialmente dalla costa americana che non distava più di sette miglia.
Lo smembramento cominciò subito. Il capitano, seguito da un forte drappello di marinai armati di pale taglienti, entrò nella bocca della balena, dopo averle strappato il labbro inferiore, onde estrarle la lingua che è lunga non meno di otto metri e per raccogliere i fanoni i quali sono in numero di settecento, della lunghezza di cinque metri, un po’ curvi, stretti gli uni agli altri per lo più neri ma talvolta anche variegati. Pendono dalla mascella superiore e sono riuniti da una sostanza glutinosa, attaccaticcia assai, la quale disseccandosi forma su di essi una specie di vernice lucida e liscia.
Terminate queste due importanti operazioni, i marinai posero mano alla dipanazione di quell’enorme massa che pesava non meno di novantamila chilogrammi e che era avvolta da un grossissimo strato di grasso.
Ben presto i fornelli ricominciarono a funzionare empiendo l’aria di un fumo nerissimo e fetente e la coperta del legno offerse il riluttante aspetto che abbiamo già descritto nello smenbramento del capodolio. Questa volta però fiocinieri e marinai lavoravano con maggior alacrità, essendo impazientissimi di rimettersi alla vela. Quegli uomini che da parecchi anni navigavano in quei freddi mari, quantunque la temperatura fosse, cosa insolita, ancora mite, presentivano l’avvicinarsi dell’inverno e d’un inverno rigidissimo
Già il sole non lanciava più, alla mezzanotte i suoi splendidi raggi su quei mari e su quelle terre. Da alcuni giorni, fra le 10 e le 11 della notte tramontava e per alcune ore si teneva celato sotto l’orizzonte. E già gli uccelli marini erano diventati meno numerosi e ad ogni istante grandi bande fuggivano verso il sud in cerca di un clima più mite. I ghiacci non erano ancora apparsi, ma i marinai se non li vedevano, li sentivano.
Il capitano aveva notato e presentito tutto ciò prima dell’equipaggio e perciò stimolava i lavoranti, non avendo tuttavia ritardato a spingersi più innanzi per completare il carico.
Prima che il sole tramontasse una terza parte del cetaceo era stata già dipanata e parecchie tonnellate d’olio erano state calate nella stiva.
Quella notte, per la prima volta, il freddo scese tre gradi sotto zero e l’acqua gettata sulla tolda poco prima dello spuntare del giorno, gelò.
Il 18 e il 19 settembre lo smembramento fu continuato con tanta alacrità che alle 10 pomeridiane l’ultimo pezzo di grasso veniva ritirato a bordo. Il capitano fece tosto spiegare le vele e il «Danebrog» abbandonò il gigantesco carcame agli uccelli marini, mettendo la prua ad est ove si scorgevano sempre, ed in grandissima quantità, le macchie oleose galleggiare sull’acqua.
La sera era magnifica. Il sole splendeva superbamente calando lentamente verso l’orizzonte, dove erravano alcune nuvolette dalla tinta di fuoco, e il mare era liscio come uno specchio, senza la più piccola ruga.
In lontananza, verso sud, giganteggiavano le dirupate coste americane coi loro abeti e i loro pini piantati sulle vette; verso nord una coppia di delfini gladiatori scherzava, mostrando ora le code e ora l’oscuro dorso; verso ovest una gran frotta di oche bernine filava in silenzio e rapidissimamente verso regioni più calde.
L’aria era mite e aveva una mollezza che rammentava una delle più belle notti d’autunno dei climi temperati, rinfrescata di quando in quando da un venticello che spirava da ovest.
Il «Danebrog», con tutte le sue vele spiegate, per alcune miglia filò verso est, poi piegò verso la costa americana ove si dirigevano le macchie oleose.
Nulla accadde durante la notte, ma poco dopo il sorgere del sole fu fatta una scoperta che turbò gli animi e fece aggrottare la fronte al capitano Weimar che era appena salito sulla tolda.
Era una montagna di ghiaccio, un «iceberg» che scendeva lentamente verso sud spinto dalle correnti e dal vento che da alcune ore soffiava da nord.
– Brutto incontro! – disse Koninson al tenente, che era salito sulla murata per meglio osservare l’«iceberg».
– Era ora! – rispose con voce tranquilla il signor Hostrup. – Non siamo più in estate.
– Non dico di no, tenente, ma se a questa montagna ne tenessero dietro altre cento o duecento, come avanzeremo noi?
– Il «Danebrog» ha un