pezzo di lama – che cosa farete ora?
– Andrò ad avvertire subito il governatore. I Ventimiglia sono stati i piú tremendi corsari del golfo del Messico. Qualche loro figlio o parente è ricomparso in queste acque. Guai a noi se non si catturasse!… Non ne parlare con nessuno, nemmeno con la marchesa.
– Sarò muto, maestro.
– Tu andrai ad avvertire il colonnello del reggimento di quanto è accaduto, perché venga trasportato in caserma, questo povero conte.
– E voi?
– Corro dal governatore.
Avvolse nell’asciugamano la lama, poi aprí la porta. La marchesa di Montelimar, in preda ad una visibile commozione, aspettava nella sala vicina insieme al maggiordomo e alle sue cameriere.
– Dunque, dottore? – chiese.
– È morto, marchesa – rispose Escobedo. – La ferita era terribile.
– E non vi ha detto chi lo ha ucciso?
– Non ha potuto parlare; deve aver avuto un duello, perché non aveva piú la spada nella guaina.
– E ora?
– Penso io a tutto. Prima dell’alba il capitano sarà portato nella caserma o nel suo appartamento. Si potrebbe malignare sul conto vostro, se lo lasciassimo qui.
– È quello che temevo.
– Buona notte, marchesa. M’incarico io di ogni cosa.
CAPITOLO III. LA CORSA AI GALLI
Il giorno dopo, una folla gioconda, vestita di costumi svariati e variopinti, si accalcava nei dintorni del grandioso palazzo dei Montelimar. Vi erano ufficiali, soldati, piantatori, marinai e contadini, e non mancavano nemmeno le señore e le señoritas in abiti elegantissimi, con la graziosa manta sulle alte pettinature, quantunque lo spettacolo che stava per incominciare non dovesse interessarle gran che.
Si trattava della corsa al gallo, già annunziata dalla marchesa al conte de Miranda, o meglio al conte di Ventimiglia.
I coloni spagnuoli hanno sempre avuto due grandi passioni: i tori ed i galli! Strano contrasto fra una bestia enorme e temibilissima ed un povero ed innocuo pennuto!
Eppure non badavano a spendere per possedere dei buoni galli, specialmente quelli destinati a combattersi l’un l’altro, e scommettevano in questo barbaro gioco somme enormi.
Ma uno dei loro divertimenti favoriti era la corsa al gallo, inventata forse con lo scopo di formare degli abilissimi cavalieri, dei quali si aveva purtroppo molto bisogno per dare la caccia ai bucanieri, i formidabili alleati dei filibustieri, che minacciavano senza tregua le città di terra, mentre gli altri si occupavano di quelle marittime.
Il giuoco era semplicissimo, tuttavia non mancava di destare un vivissimo interesse fra i numerosi spettatori, sempre pronti a scommettere una piastra come anche mille.
Su una via diritta scavavano quattro o cinque buche e vi seppellivano altrettanti galli, in modo che tenessero fuori soltanto il collo, tenendo fermi quei poveri volatili con della sabbia e con delle pietre, ma in modo però che non avessero troppo a soffrire.
I cavalieri che prendevano parte a quello strano divertimento erano obbligati a passare a corsa sfrenata, curvarsi fino a terra e con una mano strapparli.
Non era una manovra facile, poiché esponeva il cavaliere ad una caduta che poteva avere gravissime conseguenze, anche se salutata da una clamorosa risata da parte degli spettatori. Il premio ordinariamente era un bacio sulla mano o sulla gota della piú bella signora che assisteva al divertimento; galanteria spagnuola che i rudi Yankees del diciottesimo secolo dovevano piú tardi imitare.
Quattordici cavalieri, montati tutti sui piccoli ed eleganti cavalli andalusi, si erano presentati alla corsa, allineandosi dinanzi al palazzo dei Montelimar. Erano quasi tutti giovanotti, figli di piantatori o di pezzi grossi dell’ammiragliato, ansiosi di baciare le gote della piú bella vedova di San Domingo.
Spiccava però tra loro il conte de Miranda, sempre vestito di rosso, elegantissimo, che montava un cavallo andaluso tutto nero, dagli occhi ardenti, acquistato la mattina stessa a caro prezzo. Vedendo comparire la marchesa sullo scalone di marmo del palazzo, il conte si era levato il feltro rosso adorno d’una lunghissima piuma e si era chinato sul cavallo.
La bella vedova rispose con un sorriso e con un grazioso gesto della mano, poi prese subito posto in una specie di tribuna eretta dinanzi ai palazzo, insieme al suo maggiordomo e alle donne della casa.
Quattro galli erano stati seppelliti, ad una distanza di venti metri l’uno dall’altro. I disgraziati pennuti facevano sforzi disperati per liberarsi da quella incomoda prigionia, allungando il collo e cantando a piena gola, ma le pietre li trattenevano e impedivano loro di fuggire.
Due giudici di campo, due vecchi ufficiali in ritiro, si erano collocati ai due lati dei cavalieri per regolare la corsa.
Il pubblico, che era diventato numerosissimo, scommetteva intanto con vero furore e, sia per simpatia, sia per la bella figura, puntava di preferenza sul figlio del Corsaro Rosso.
Quale terribile sorpresa, se avesse saputo che giocava sul suo piú mortale nemico, su uno di quei tremendi filibustieri che avevano giurato la distruzione delle colonie spagnuole dell’America Centrale!…
I due giudici di campo, dopo aver esaminato attentamente le bardature dei cavalli, perché non accadesse qualche disgrazia, si erano accostati al palco dove si trovava la marchesa.
– Pronti? – chiese uno.
– Tutti – risposero ad una voce i quattordici cavalieri, lanciando uno sguardo verso la marchesa di Montelimar.
– Partite. – disse l’altro.
I cavalli, vivamente spronati, spiccarono un salto, poi si slanciarono con impeto irrefrenabile.
Il figlio del Corsaro Rosso aveva subito preso la testa del drappello, tenendo solamente il piede sinistro nella staffa per potersi piú facilmente curvare fino a terra.
Il suo morello, un cavallo scelto con cura, divorava la via con uno slancio straordinario, lasciandosi dietro di parecchi metri gli avversari.
Cavalcava cosí splendidamente, da suscitare un vero entusiasmo fra gli spettatori. Uomini e donne applaudivano fragorosamente quando passava davanti a loro, curvo sul collo del destriero, facendo ondeggiare la sua lunghissima piuma rossa. Il giovane cavaliere, giunse cosi addosso al primo gallo, con la velocità d’un uragano, si piegò verso terra, tenendosi con una mano ben fermo al collo del cavallo e, lesto come un cavaliere arabo, afferrato il primo volatile, lo strappò dalla sua buca e lo alzò trionfalmente.
Un grido di entusiasmo, partito dalla folla, salutò il colpo maestro del cavaliere. Uomini e donne sventolavano i fazzoletti ed agitavano bastoni ed ombrelli, come se avessero assistito ad una corrida de toros. Il giovane rosso in quel momento veniva acclamato come uno dei piú famosi espadas del circo di Siviglia o di Granata.
Il conte strozzò il gallo e lo gettò ad un gruppo di mendicanti; poi, giunto all’estremità della via, chiusa da uno steccato, fece fare al cavallo un fulmineo volteggio e riprese la corsa di ritorno.
I cavalieri che lo avevano seguito giungevano in quel momento quasi in gruppo serrato, ma tutti a mani vuote. Nessuno era stato fortunato, in quella prima corsa, ed i galli erano rimasti dentro la loro prigione.
– Che pessimi cavalieri! – mormorò il conte. – Che spetti a me accoppare tutti questi volatili? La cosa sarebbe noiosa, se la vittoria non valesse un bacio alla piú bella donna di San Domingo.
Allentò le briglie e riprese la corsa, spronando col piede destro il suo morello, e tenendo come prima il sinistro libero, per potersi curvare con maggiore comodità.
Poiché aveva sugli avversari un vantaggio di oltre trenta metri, ed era solo, mentre gli altri galoppavano in gruppo, il conte raggiunse in un lampo il secondo gallo e lo strappò.
Non un grido, ma un vero urlo entusiastico salutò il cavaliere.
– Viva