Emilio Salgari

Il tesoro della montagna azzurra


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movendo in direzione della goletta. Don Pedro e Mina avevano raggiunto il capitano, tenendosi per mano. Il primo ostentava una certa calma: Mina invece appariva in preda a una grande agitazione ed era pallidissima.

      – Tutto sta per finire è vero, don Josè? – disse il giovane.

      Il capitano rimase qualche istante silenzioso, torcendosi nervosamente la lunga barba.

      – Chissà, – rispose poi. – Talvolta si sfugge anche alle spire delle trombe.

      – Non vedete, don Josè, che viene proprio verso di noi? – disse Mina con voce tremante.

      – Purtroppo!

      – E non si può tentare più nulla? – chiese don Pedro.

      – Non possiamo più spiegare vele… Attenti … tenetevi stretti alle funi … il salto … il salto!…

      Un colpo di vento, di una violenza inaudita, investì per la seconda volta l’Andalusia abbattendole di colpo l’albero di trinchetto, i cui pennoni portavano ancora alcuni brandelli di tela. Avendolo schiantato un po’ sopra la coffa, l’enorme troncone cadde in mare, dopo aver fracassata due metri della muratura di babordo. Fu una gran fortuna, poiché se fosse accaduto invece attraverso il castello di prora avrebbe ucciso il capitano, don Pedro, Mina e i cinque o sei marinai che stavano con loro. Caduto l’albero, l’Andalusia fu quasi sollevata fuori dalle onde dall’impeto della gran raffica, ma non avendo vele sugli alberi, poiché tutte le rande, le controrande e gli strali erano stati abbassati prima che la tempesta scoppiasse, poté fuggire almeno per il momento al disastro. Guai se il vento l’avesse sorpresa con le vele spiegate! L’avrebbe inabissata di colpo per la prora. Passata la raffica, tre o quattro enormi montagne di acqua spazzarono per qualche minuto la tolda, precipitandosi come immensi torrenti sopra il castello di prora e sfuggendo, con un enorme rimbalzo, al di sopra del cassero. Don Josè, che si era avvinghiato a una trinca del bompresso, cessata quella furia, lanciò un rapido sguardo in coperta e respirò a lungo vedendo a pochi passi da sé don Pedro e la fanciulla abbracciati strettamente al troncone dell’albero di trinchetto.

      – Temevo che le onde vi avessero portati via, – mormorò. – La prova è stata dura e purtroppo non sarà l’ultima.

      Infatti l’Andalusia doveva fare ancora i conti con la tromba, che avanzava roteando e muggendo cupamente. Una gigantesca corona di spuma circondava la sua base, ricadendo in enormi cascate, mentre la colonna superiore che aveva la circonferenza di circa un centinaio di metri, continuava a tingersi di luci livide. Verso la cima, affondata nell’immensa nuvola, il tuono scrosciava incessantemente e le folgori guizzavano tutt’intorno, descrivendo degli zig-zag fiammeggianti.

      – Don Josè! – gridò don Pedro che teneva stretta fra le braccia Mina, che sembrava quasi svenuta.

      – Sta per arrivare la fine per noi tutti? Vi prego di dirmelo francamente. La morte non fa paura al figlio di un prode capitano; è per mia sorella che tremo.

      – Non posso dir nulla per il momento – rispose il capitano che seguiva attentamente la marcia della colonna. – Noi siamo immobilizzati, mentre la tromba cammina.

      – Ci verrà addosso?

      – Chi può dirlo? Non ha preso ancora, malgrado il vento, la sua direzione. Può passarci vicina senza toccarci, come può deviare a nord o a sud. Le raffiche balzano in tutte le direzioni e comincio a non capirci più nulla.

      – È la fine.

      – Non ditelo ancora, don Pedro. Guardate: la tromba torna a spostarsi ora a sud ora a settentrione, e questo gioco angoscioso può durare molto.

      – E intanto forse don Ramirez giungerà prima di noi.

      – Se la bufera fa tribolare noi, non sarà clemente con lui, se si trova già in questi paraggi, poiché l’uragano deve imperversare su tutta la costa orientale… Portate Mina nel casotto di poppa. La povera fanciulla non si regge più.

      Due marinai presero la fanciulla sotto le braccia, perché le onde, che continuavano a infrangersi contro le murate, non la rovesciassero e la condussero al coperto, nell’abitacolo posto davanti alla ruota del timone. Don Pedro era rimasto presso il comandante, pronto però ad accorrere in aiuto della sorella. La furia del mare non si calmava. Le onde, scombussolate dai soprassalti e dai giri turbinosi della tromba, si accaniva contro la nave, percotendone senza posa i fianchi. Salivano a bordo mostrando le loro creste minacciose, poi si aprivano, lasciandole cadere in profondi abissi. Il rollio e il beccheggio erano diventati così spaventosi che l’equipaggio stentava a tenersi in piedi. E nulla da fare, nulla da tentare! Spiegare le vele sarebbe stata una vera pazzia in quel momento, tanto più che non rimanevano che le rande, che potevano offrire buona presa a un nuovo colpo di vento. Don Josè era furioso di trovarsi impotente contro l’uragano e la tromba. Per un momento aveva pensato di ritentare la prova del cannone, poi aveva rinunciato. Colpire la colonna liquida che non cessava di spostarsi, mentre la nave subiva dei soprassalti disordinati, era cosa assolutamente impossibile.

      – Affidiamoci al destino,– mormorò con rassegnazione. – Non c’è più altro da fare che prepararsi a morire.

      Un po’ fatalista, come quasi tutti gli uomini di mare, si era aggrappato all’argano di prora, aspettando con meravigliosa freddezza d’animo il colpo mortale che doveva subissare l’Andalusia e tutti quelli che la montavano. E quel colpo, disgraziatamente, non era lontano. Non erano trascorsi venti minuti dal secondo turbine, quando sopraggiunse il terzo, il più temuto poiché è quasi sempre il più violento. La colonna d’acqua, investita da quella raffica formidabile, filò dritta verso l’Andalusia, che presentava in quel momento il suo fianco di tribordo. Si udì uno scroscio orrendo, come se tutto il fasciame avesse ceduto, seguito da urla di spavento, poi la nave fu sollevata e presa fra le spire della gigantesca colonna. Don Pedro aveva chiuso gli occhi per non vedere, chiamando angosciosamente Mina. Il capitano, credendo che tutto fosse finito, aveva tratto una pistola per uccidersi sul ponte della sua nave. L’ultima ora invece non era ancora arrivata. La nave seguiva il movimento rotatorio della tromba, ora quasi tutta fuori dall’acqua, ora basandosi sulla spuma che formava come lo zoccolo della colonna. A un tratto la nave subì una scossa spaventosa, come un colpo di tallone e si fermò, mentre la tromba ricadeva in mare sollevando onde altissime.

      La grande nube, stanca di assorbirla, l’aveva abbandonata, restituendola all’oceano che l’aveva creata. Per alcuni minuti l’Andalusia fu subissata da un diluvio d’acqua tale da impedire al suo equipaggio di sapere se galleggiava ancora o se stava scendendo nei profondi abissi del Pacifico; poi, come per incanto, le onde si spianarono e una calma improvvisa, inesplicabile, successe al ciclone.

      – Vivi! Ancora vivi! – gridò don Pedro.

      – Vivi per perderci più tardi, – rispose il capitano.

      – Ma che cosa è accaduto, don Josè?

      – La base della tromba deve aver incontrato sulla marcia qualche scogliera, che per il momento non possiamo vedere, e si è spezzata contro.

      – Una vera fortuna.

      – Ah! La chiamate così? Non avete udito quello scroscio?

      – Certo.

      – Era la carena della mia nave che si sfondava.

      – Cosa dite, don Josè! – esclamò don Pedro che si era fatto pallidissimo.

      – Che il tesoro della Montagna Azzurra può essere perduto per voi.

      – Questo non lo crederò mai.

      – E come andremo a raccoglierlo se la mia nave si è spezzata?

      – Voi non siete ancora ben certo se l’Andalusia sia assolutamente inservibile.

      – Un vecchio marinaio difficilmente si inganna.

      – Può essersi aperta semplicemente una falla, facilmente riparabile.

      – Uhm! – fece il capitano crollando il capo. – Se lo scafo non si muove con tutti questi colpi di mare, vuol dire che le punte delle scogliere sono penetrate ben dentro la stiva